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Servono indicatori più adatti ai Paesi «calabrone»

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intervista enrico giovannini

Servono indicatori più adatti ai Paesi «calabrone»

  • –di Mar.B. e M.Per.

Sugli indici internazionali «non c’è alcun controllo di qualità», come avviene invece per le statistiche ufficiali. E l’Italia dovrebbe fare una battaglia per garantire che gli indicatori rappresentino anche modelli economici diversi, «più adatti a Paesi calabrone come il nostro, che non dovrebbero volare ma incredibilmente volano».

Ne è convinto Enrico Giovannini, docente di statistica economica a Tor Vergata, una vita spesa tra i dati, prima come capo statistico dell’Ocse e poi come presidente dell’Istat, con una parentesi da ministro del Lavoro nel Governo Letta.

In molte classifiche internazionali l’Italia è posizionata sempre più in basso dei principali partner europei, Spagna compresa. Siamo davvero così terribili oppure qualcosa non torna?

Intanto ci sono due tipi di indici: quelli che si basano su dati statistici e quelli che si basano sui giudizi di “esperti”. Questi ultimi sono veramente poco attendibili sia perché percezione e dati statistici possono andare in direzione opposta sia perché bisogna fare attenzione quando si parla di “esperti”. Prendiamo l’articolo 18: se prima della riforma mi fossi rivolto a un esperto legato a una multinazionale lo avrebbe indicato come un grosso problema, altri no. Ci sono poi problemi metodologici. Non sono sicuro che tutti questi indici passerebbero i test, in particolare di sensitività. Uno dei punti cruciali è la struttura dei pesi, tipicamente arbitrari. Per questo l’Ocse raccomanda che gli indici siano sempre affiancati da analisi di sensitività, che permettano di capire cosa succede alle classifiche se io cambio anche leggermente i pesi. Raramente questo accade.

Ma secondo lei c’è un caso Italia? È possibile che nella percezione degli esperti italiani il nostro sia il peggior Paese del mondo?

Certamente c’è un problema di visione complessiva del Paese, ma c’è un’altra componente importante: il modello di riferimento. Quando anni fa ci battevamo con il Botswana per l’Indice di competitività del Wef, mi veniva da dire: «Forse vi siete dimenticati qualcosa in questo indice, per esempio la qualità del capitale umano disponibile». Magari in Botswana basta un giorno per aprire un’impresa ma poi quando devi cercare i lavoratori quanto tempo li devi formare? Questo intendo quando parlo dei modelli che stanno dietro gli indicatori. Non a caso aumentano le critiche sul fatto che mentre le statistiche vengono ormai controllate attraverso schemi molto elaborati sulla qualità dei dati, tutti questi indicatori sono totalmente al di fuori di ogni controllo di qualità. A livello internazionale stiamo cercando di creare una specie di cane da guardia. L’Oxford Martin Commission for future ha lanciato l’idea del “worldstat” che dovrebbe guardare alla qualità dei dati, soprattutto di quelli che non provengono dalle statistiche ufficiali. Pure l’Onu ha posto il problema.

Anche perché spesso questi dati si autoalimentano in un gioco di rimandi...

Spesso l’organizzazione che li produce è nota per i dati prodotti. E la funzione di questi indici è anche quella di promuovere l’agenda del soggetto che li produce. Allora si enfatizzano le differenze tra i Paesi, che piacciono ai giornalisti, anche se statisticamente non cambia niente. Invece dovremmo essere capaci di distinguere in queste classifiche i cambiamenti significativi da quelli non significativi.

Da statistico, pensa che l’Italia dovrebbe occuparsene, verificando che siano usati i dati e i pesi corretti?

Sì, l’Italia dovrebbe porre più attenzione al modo in cui questi indicatori sono prodotti, per fare una battaglia e discuterne la rappresentatività. Perché magari sono disegnati su un modello fordista, in cui hai tante grandi imprese, che non si applica a un modello come quello italiano in cui hai tante piccole imprese. Anni fa quando ero in Ocse, mentre facevo la battaglia per andare oltre il Pil, il Dipartimento economico lanciava la pubblicazione “Growth for growth”, un’analisi annuale sulle politiche strutturali, un benchmarking. E qual è il Paese di riferimento? Gli Stati Uniti, che negli anni 90 avevano avuto la crescita più forte del reddito pro capite. Ma se ci fossimo dati come obiettivo quello di vedere l’andamento del reddito mediano, e non medio, cioè tenendo conto della distribuzione del reddito, mai gli Stati Uniti sarebbero stati scelti come benchmark. Tutti questi indici hanno una base concettuale dietro, e non sempre lo schema si adatta a Paesi calabrone come l’Italia, per citare il libro di Luca Paolazzi e Fabrizio Galimberti: i calabroni non dovrebbero volare ma incredibilmente volano.