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Lavoro e conti pubblici, le chiacchiere stanno a zero

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il dopo istat

Lavoro e conti pubblici, le chiacchiere stanno a zero

Non si può dire che, questa settimana, l'Istat sia stata di grande conforto al governo e al Paese. Prima la doccia fredda sull'occupazione: meno occupati, più disoccupati fra gennaio e febbraio 2015. Poi il pugno nello stomaco dei conti pubblici: nell'ultimo trimestre del 2014 l'interposizione pubblica, ossia il grado di ingerenza della politica nell'economia, ha toccato il massimo storico, superando il record (possiamo chiamarlo così?) a suo tempo toccato dal governo Monti alla fine del 2012.

Questo secondo colpo che l'Istat (facendo fino in fondo il suo mestiere di osservatore imparziale) ha inferto all'immagine del paese ha suscitato meno clamore del primo perché le fredde cifre di conti pubblici non scaldano i cuori dell'opinione pubblica come le calde cifre dell'occupazione e della disoccupazione. Eppure i due tipi di cifre sono connesse, e le cattive notizie provenienti dai conti pubblici sono forse ancora più gravi di quelle che provengono dal mercato del lavoro.
Vediamo brevemente perché, cominciando con una possibile definizione dell'interposizione pubblica. Per valutare in che misura la Pubblica Amministrazione si interpone nell'economia di un paese si può calcolare quanto le entrate e le uscite totali (al netto degli interessi sul debito) pesano sul Pil. Ebbene questo rapporto era pari all'85,6% nel 2011 (ultimo anno del governo Berlusconi), è balzato all'89% nel 2012 (sotto Monti), è salito all'89,9% nel 2013 (sotto Letta), e ha sfondato la barriera del 90% nel 2014 (sotto Renzi), portandosi al 90,4%. La progressione è ancora più inquietante se cerchiamo di valutare le cose partendo dall'ultimo dato disponibile (4° trimestre 2014), e confrontiamo tra loro gli ultimi trimestri di ogni anno (in cui tradizionalmente uscite e entrate sono più alte che nel resto dell'anno): 103,8% nel 2011 (Berlusconi), 107,5 nel 2012 (Monti), 106,0 nel 2013 (Letta), 108,2 nel 2014 (Renzi). Si vede bene che ogni governo fa cambiare verso al trend dell'interposizione pubblica, ma l'unico governo che l'ha diminuita è quello di Letta.

Il governo attuale ha sì “cambiato verso” rispetto a quello di Letta, ma portandoci all'indietro, verso i livelli mostruosi che il governo Monti aveva toccato in una situazione eccezionale, in nessun modo comparabile a quella assai più favorevole di oggi. Poiché so benissimo che cosa mi verrà obiettato a questo punto, mi faccio da solo l'obiezione: ma il dato del governo Renzi è falsato dal fatto che la contabilità europea ci obbliga a trattare i 6-7 miliardi del bonus da 80 euro come una maggiore spesa, anziché come una minore entrata. L'interposizione pubblica effettiva andrebbe dunque ricalcolata trattando il bonus per quello che è, una riduzione della pressione fiscale e non un aumento di spesa pubblica. Personalmente non trovo affatto irragionevole questo modo di ragionare del Ministero dell'Economia (anche se naturalmente anche l'Europa ha i suoi buoni motivi), quindi ho ricalcolato l'interposizione pubblica facendo esattamente quello che il Governo auspica, ossia trattando il bonus da 80 euro come una riduzione della pressione fiscale anziché come una spesa. Ebbene, il risultato è deprimente: anche accettando fino in fondo la contabilità governativa, l'interposizione pubblica del 4° trimestre 2014 resta a livelli altissimi: 107.4%, ossia abbondantemente peggiore di quella ereditata da Letta (106.0), e praticamente allineata a quella (107.5) che Monti aveva imposto in una situazione drammatica come quella del 2012.

Dunque abbiamo un problema. Il problema è che, quando arrivano i dati Istat, le chiacchiere stanno a zero. Si possono pronunciare parole alate, si possono confezionare slide variopinte, si possono esibire modernissimi (ma neanche poi tanto) fogli Excel, si può cinguettare finché si vuole su Twitter e Facebook, si possono riversare sui media vagonate di slogan e di battute irridenti, ma poi arriva la dura, pietrosa, irriducibile realtà dei dati. Basta una piccola, modesta, tradizionale tabellina come quella dei conti pubblici pubblicata dall'Istat il 2 aprile per far svanire ogni illusione: la politica, con la sua perdurante invadenza e pervasività, non mostra alcuna intenzione di fare passi indietro. Come un ghiacciaio che non si ritira, ma allunga la sua morsa sulla roccia su cui poggia. Che aspettarsi, perciò? Date le premesse, lo scenario più verosimile mi pare quello di sempre: qualche taglio di spesa (ottima l'idea di aggredire le false pensioni di invalidità), ovviamente accompagnato dalle immancabili nuove spese prioritarie e indilazionabili; un po' di deficit pubblico in più, magari presentato come premio per aver fatto “le riforme che ci chiede l'Europa”; e naturalmente il consueto aumento della pressione fiscale complessiva, poco importa se attuato alzando l'Iva dal 1° gennaio 2016, o attraverso un cocktail più complicato di inasprimenti fiscali (giusto ieri si è ricominciato a parlare di tagli agli incentivi e alle agevolazioni per le imprese).

Ma non è tutto. Alle falle nei conti pubblici che stanno venendo a galla in questi giorni, potrebbe purtroppo aggiungersene una nuova, non preventivata dal governo ma più volte segnalata dagli studiosi del mercato del lavoro: i 2 miliardi scarsi stanziati per il 2015 dalla legge di stabilità per incentivare le assunzioni a tempo indeterminato potrebbero non bastare. Nulla esclude, infatti, che il mercato del lavoro italiano nel 2015 sia investito da una sorta di “bolla occupazionale”, destinata a scoppiare, ossia a sgonfiarsi, solo nel 2016. Questo perché, se il governo confermerà che lo sgravio vale solo per gli assunti nel 2015 (o semplicemente lascerà nel vago la possibilità di una proroga nel 2016), allora nel 2015 si cumuleranno tre tipi di assunzioni: le assunzioni rimandate a fine 2014 in attesa dello sgravio; le assunzioni “normali” del 2014; le assunzioni del 2016 anticipate al 2015 per usufruire dello sgravio. Di qui un aumento apparente dell'occupazione, e un'ulteriore falla (reale, in questo caso) nei conti pubblici del 2015.

Ecco perché, sull'evoluzione futura della pressione fiscale, è difficile essere ottimisti. Se ci sarà bisogno di rifinanziare la decontribuzione, il governo i soldi li troverà, perché è politicamente conveniente. Ma pensare che li troverà disboscando la giungla degli sprechi pubblici, anziché imponendo nuove tasse, è una generosa illusione: se davvero ci fosse stata, e tuttora ci fosse, la volontà di aggredire la spesa improduttiva, Carlo Cottarelli, il commissario alla spending review, non se ne sarebbe tornato a Washington, al Fondo Monetario, ma sarebbe ancora qui, chiuso nel suo ufficio, a studiare come si doma il drago della spesa pubblica.

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