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Quando il virus della violenza diventa malattia endemica

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LA STRAGE DI MILANO

Quando il virus della violenza diventa malattia endemica

La strage di giovedì scorso a Palazzo di Giustizia di Milano merita, per la sua violenza e gravità, alcune considerazioni che riguardano il luogo dove è avvenuta e la sua chiara connessione con le atrocità e le violenze che in questo periodo coinvolgono il mondo intero.

Notava già il Wall Street Journal di venerdì scorso che la violenza con le armi è relativamente rara nel nostro Paese, il che da un lato spiega l'oggettiva mancanza di sufficiente protezione all'interno del Palazzo di Giustizia e dall'altro la facilità con la quale l'assassinio del giudice Ciampi e delle altre due vittime è stato compiuto. Milano ora certo non merita la grande esaltazione di Bonvesin de la Riva, che nel suo libro “Le meraviglie di Milano”, riscontrava peraltro due difetti caratteristici tutt'oggi presenti: la mancanza di concordia tra i cittadini e la mancanza di un porto che permetta l'arrivo di navi dal mare. Se il secondo difetto pare oggi certo meno grave, il primo è solo in parte compensato dalle diffuse iniziative di volontariato, che potrebbero costituire un nuovo modello di coesistenza e di civiltà.

Il pluriomicidio a Palazzo di Giustizia trova la sua origine nel generale virus della violenza, la quale, pur esistendo nella storia dell'uomo fin dagli albori (basti pensare alle testimonianze della Bibbia e di Omero), ha oggi assunto la caratteristica di una malattia epidemica. L'omicida ha inteso agire, facendosi giustizia da sé, nel luogo simbolo della giustizia statale. È singolare la coincidenza temporale del fatto di Milano con la condanna contro l'Italia emessa martedì scorso dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per la mattanza commessa dalle forze dell'ordine nella scuola Diaz durante il G-8 di Genova: da un lato dunque violenza contro lo Stato e dall'altro violenza abusivamente esercitata dallo Stato stesso.

Recentissimi episodi di eguale inspiegabile ed epidemica violenza sono l'omicidio in North Carolina di un uomo di colore disarmato da parte di un poliziotto bianco, che gli aveva sparato alle spalle dopo averlo fermato per ragioni di traffico; quelli del pilota dell'aereo tedesco, Andreas Lubitz, che ha posto volontariamente fine alla sua vita schiantandosi insieme a tutti i passeggeri del volo. Senza parlare poi dei quotidiani casi di “femminicidio”.

Ancor più estesi, ma di non diversa matrice, sono i conflitti particolarmente esplosivi e pericolosi del Medio Oriente, dove il virus della violenza nella veste di fanatismo religioso si sta trasformando in una guerra barbara e senza pietà, che sta via via coinvolgendo tutto l'ordine mondiale, come dimostrano il recente attentato alla sede di Parigi del giornale Charlie Hebdo, e le feroci decapitazioni videoriprese, al fine di mostrare (e dimostrare) la potenza della violenza. Il tutto fa qui ricordare lo scritto del 2007 di Peter Sloterdijk nel libro “Il furore di Dio”, sul conflitto dei tre monoteismi.

Il virus della violenza e la conseguenza, che ciascuno si consideri autorizzato al suo esercizio facendosi giustizia da sé, diventa il principale comandamento della vita civile e rappresenta la conclusione di un paranoico processo di globalizzazione, che ha portato al prevalere dovunque del “privato” sul “pubblico”, smentendo clamorosamente la tesi di Francis Fukuyama che la fine della storia sarebbe consistita nella vittoria in tutti i Paesi del mondo delle democrazie liberali, in modo particolare dell'economia del libero mercato. Ma è proprio la deriva, invece, di questa ideologia, che ha provocato e continua a provocare nel mondo un aumento intollerabile delle disuguaglianze di ogni tipo, di disoccupazione e miseria, nelle quali fiorisce il virus della violenza.

Invocare la legalità non accompagnata dal concetto di giustizia e affidata soltanto al prevalere della libertà del privato, anche nel formulare le regole, ha portato a uno sconvolgimento globale. Più che mai le conseguenze economiche e sociali della crisi attuale, che appare come il frutto spietato di un liberismo senza regole, hanno reso oramai impossibile la realizzazione di un “contratto sociale”, senza il quale viene meno ogni convivenza civile. Gli ideali da cui era partita la democrazia liberale, frutto dei tre fondamentali principi di liberté, égalité, fraternité, hanno avuto nel tempo una costante e amara delusione, poiché né égalité né fraternité si sono minimamente realizzate, a favore di una liberté che ha celebrato la mancanza di qualunque limite.

Fanatismo, terrorismo e violenza, soprattutto anche nel linguaggio politico, dove l'esaltazione di sé presuppone la distruzione dell'altro, portano soltanto ad una sorta di nichilismo apocalittico del quale sono vittima tutti i moderni movimenti populisti. A questa forma di autodistruzione corrispondono il terrore incolto dello Stato islamico e il vandalismo jihadista, che ha distrutto Hatra, la città del sole, nonché il Museo del Bardo a Tunisi. Sembra allora oggi più che mai attuale la famosissima dichiarazione di Amleto dopo la morte del padre e in attesa di un ordine nuovo: “the time is out of joint” (Amleto I, V), che il grande Eugenio Montale ha tradotto per i Meridiani: “il mondo è fuor di squadra”. La sfida che ha oggi l'intera umanità è quella di rimetterlo in sesto.

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