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Perché serve l’Onu

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Scenari

Perché serve l’Onu

Settecento morti nel Mediterraneo nella notte tra sabato 18 aprile e domenica, a 60 miglia dalle coste libiche. È il più grande sterminio in mare dal dopoguerra, dopo i 366 morti del 2013 a Lampedusa. Inutile snocciolare i numeri delle scorse settimane, le percentuali in costante aumento: sempre giunge l’ora in cui il numero acceca la vista lunga, indica e al tempo stesso cancella le persone. Enumerare non serve più, se non chiamiamo a rispondere gli attori politici del dramma: la Commissione europea, gli Stati dell’Unione, l’Alto Commissariato Onu.

A tutti va ricordato che le normative sul soccorso dei naufraghi e sul non-respingimento sono divenute cogenti in contemporanea con l’unificazione europea, in memoria del mancato soccorso alle vittime dei genocidi nazisti. Sono la nostra comune legge europea.

A questi attori bisogna rivolgersi oggi con una preliminare e solenne domanda: smettete l’uso di parole altisonanti; passate all’azione; non reagite con blocchi navali che tengano lontani i fuggitivi dalle nostre case, come si tentò di tener lontani gli ebrei in fuga dal nazismo. Questo è un giorno di svolta. A partire da oggi occorre mettere la parola urgenza, al posto di emergenza. Bisogna dare alla realtà il nome che merita: siamo di fronte a crimini di guerra e sterminio in tempo di pace, commessi dall’Unione europea, dai suoi 28 Stati, dagli europarlamentari e anche dall’Alto Commissariato dell’Onu. Il crimine non è episodico ma ormai sistemico, e va messo sullo stesso piano delle guerre e delle carestie prolungate. Il Mar Mediterraneo non smette di riempirsi di morti dal 28 marzo 1997, quando, nel naufragio della Katër i Radës, 81 profughi albanesi perirono nel canale di Otranto. Lo sterminio dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe insieme, più della guerra in Vietnam. È indecenza parlare di “cimitero Mediterraneo”. Parliamo di fossa comune: non c’è lapide che riporti i nomi dei fuggitivi che abbiamo lasciato annegare.

Le azioni di urgenza che vanno intraprese devono essere, tutte, all’altezza di questo crimine, e della memoria del mancato soccorso nel secolo scorso. Non sono all’altezza le missioni diplomatiche o militari in Libia, dove per colpa dell’Unione, dei suoi governi, degli Stati Uniti, non c’è più interlocutore statale. Ancor meno lo sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo – dalla Siria alla Palestina, dall'Egitto al Marocco – di cui l’Occidente è responsabile da anni.

Le azioni necessarie nell’immediato, eccole:

Urge togliere alle mafie e ai trafficanti il monopolio sulle vite e le morti dei fuggitivi, e di conseguenza predisporre vie legali di fuga presidiate dall’Unione europea e dall’Onu.

Urge finanziare interventi di ricerca e salvataggio, non solo lungo le coste europee ma anche in alto mare, come faceva Mare Nostrum e come ha l’ordine di non fare Triton. Questo, nella consapevolezza che la stabilizzazione del caos libico non è ottenibile nel breve-medio periodo.

Urge che gli Stati europei collaborino lealmente (art. 4 del Trattato dell’Unione), smentendo quanto dichiarato da Natasha Bertaud, portavoce della Commissione: «Al momento attuale, la Commissione non ha né il denaro né l’appoggio politico per predisporre un sistema di tutela delle frontiere, capace di impegnarsi in operazioni di search and rescue». Una frase che ha il cupo suono dell’omissione di soccorso: un reato contro la persona, nei nostri ordinamenti giuridici.

Occorre che l’Onu stessa si muova d’urgenza, e che il Consiglio di sicurezza fronteggi il dramma con una risoluzione. Se i crimini in mare somigliano a una guerra prolungata o a carestie nate dal tracollo degli Stati nei Paesi di transito o d’origine, non escludiamo interventi dei caschi blu. I soccorsi agli affamati e sfollati sono una prassi sperimentata delle Nazioni Unite. Va applicata oggi al Mediterraneo.

Occorre rivedere al più presto i regolamenti di Dublino. Con una sentenza del 21 dicembre 2011, la Corte di giustizia europea pone come condizione essenziale per procedere al trasferimento l’aver positivamente verificato se il migrante corra il rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani. Si tratta di un vero e proprio obbligo di derogare ai criteri di competenza enumerati nelle norme di Dublino.

Con la medesima tempestività, occorre tener conto che i Paesi più esposti ai flussi migratori sono oggi in Sud Europa (Grecia, Italia, Cipro, Malta, Spagna): gli stessi a esser più colpiti, dopo la crisi del 2007-2008, da politiche di drastica riduzione delle spese sociali. Spese che includono l’assistenza e il salvataggio dei profughi. Il peso che ingiustamente grava sulle loro spalle va immediatamente alleviato.

Infine, la questione tempo. È dallo sterminio presso Lampedusa che Governi e Parlamenti in Europa preconizzano una cooperazione con i Paesi di origine e di transito, per “esternalizzare” le politiche di search and rescue e di asilo. Il Commissario Avramopoulos ha addirittura auspicato una “cooperazione con le dittature”, prospettando i respingimenti collettivi vietati dalla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei Rifugiati del ‘51 (art. 33) e dagli articoli 18 e 19 della Carta europea dei diritti fondamentali.

Non c’è tempo per costruire relazioni diplomatiche – nei cosiddetti processi di Rabat e Khartoum – perché i fuggitivi sono in mare qui e ora, e qui e ora vanno salvati: sia dalla morte, sia dalle mafie che fanno soldi sulla loro pelle e riempiono un vuoto di legalità che l’Unione deve colmare. Gli Stati europei e l’Onu si macchiano di crimini e vivono inoltre nell’illusione. Carlotta Sami, portavoce dell’UNHCR, parla chiaro: «Far morire le persone in mare non impedirà ai fuggitivi di cercare sempre di nuovo la salvezza» dalle guerre, dalla fame, dall’odio che oggi si scatena contro i cristiani o altre minoranze, e in futuro anche dai disastri climatici.

Il tempo delle parole e dei negoziati diplomatici è senza più alcun rapporto con l’urgenza che si impone. È adesso, subito, che bisogna organizzare un’operazione salvataggio dell’umanità in fuga verso l’Europa.

Barbara Spinelli è eurodeputato, gruppo GUE-Ngl

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