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«Difendiamo libertà e giustizia»

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Italia

«Difendiamo libertà e giustizia»

«Libertà e giustizia sono beni preziosi. Difendiamoli con tutte le forze. La vita di un popolo è questa». Ci sono 103 anni di vita spesa per la libertà e la giustizia dietro queste poche, e semplici, parole. Gli anni di Garibaldo Benifei, livornese, partigiano, politico, antifascista. Garibaldo si è spento ieri, improvvisamente, a poche ore dal 70° anniversario della Liberazione. Con lui se ne va un pezzo di storia dell’antifascismo e della Resistenza, ma non la sua testimonianza. Un operaio, come i tanti giovani costretti a lasciare gli studi per sottrarsi alle persecuzioni fasciste, che dedicarono la vita alla difesa della libertà di tutti, sacrificando la loro, di vita e di libertà. Lotta di popolo e per il popolo.

«Combattevamo per la libertà, ma non con bombe e fucili – ricordava Garibaldo il 25 novembre scorso, durante un convegno organizzato dalla Corte di Cassazione in onore suo e dei tanti “martiri della libertà” condannati, tra il 1926 e il 1943, dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato -. Eravamo tanti, anche se eravamo pochi. Combattevamo con le parole. Volevamo parlare al popolo della democrazia. Volevamo che i giovani aprissero gli occhi e capissero che il mondo doveva essere diverso. “Libertà, pane, pace” erano le nostre parole d’ordine e per quelle parole fummo incatenati e condannati».

Fu una giornata particolare, quella in Cassazione. Dopo ottant’anni, infatti, Garibaldo tornava nell’aula in cui gli pseudo-giudici del Tribunale fascista, asserviti alle direttive del Duce, lo condannarono per ben due volte, prima a un anno di carcere (nel ’33) e poi a sette (nel ’39), per aver difeso la libertà di espressione. Sul Domenicale del Sole 24 ore del 25 gennaio 2015 raccontammo quel pomeriggio “speciale”, denso di ricordi e di emozioni e privo di qualunque retorica. Garibaldo sedeva tra magistrati, professori, avvocati, al posto dei suoi carnefici che nel ventennio fascista processarono 5.619 persone, mandandone a morte 42, al carcere (anche a vita) 4.596, per un totale di 27.735 anni di prigione. Nell’aula del Tribunale speciale entrarono e uscirono in catene 122 donne e 697 ragazzi, uomini come Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Sandro Pertini, che Garibaldo conobbe in carcere, dopo la sua prima condanna. In quell’aula si consumò una delle più oscene vergogne della giustizia italiana, su cui la Cassazione - dopo anni di rimozione - decise quel giorno di alzare il sipario per rendere onore ai “martiri della libertà”, di cui Garibaldo era tra i pochi viventi, insieme a Ljubomir Susic, classe 1925, ormai unico superstite.

In prima fila era seduta Osmana Benetti, 91 anni, compagna di vita e politica di Garibaldo. Entrambi impegnati nella Resistenza livornese fino al 1944, si sposarono nell’ottobre del 1943. Dopo il matrimonio, Garibaldo tornò a fare l’operaio, ma senza mai abbandonare l’attività politica, quella di volontariato e, soprattutto, l’impegno a testimoniare ai giovani i valori nati dalla lotta antifascista e dalla Resistenza. Libertà e giustizia. Presidente a Livorno dell’Associazione Nazionale Perseguitati politici, nel 2007 gli fu consegnata la “Livornina d’oro”, uno dei più importanti riconoscimenti della città. La Cassazione gli ha donato una medaglia.

Al Palazzaccio, Garibaldo raccontò dei suoi due processi davanti al Tribunale speciale, con voce ferma e chiara, ricordando persino i dettagli. Come quello del Pubblico ministerò che ammonì l’avvocato degli imputati per la veemenza con cui li difendeva. «La smetta - gli disse - altrimenti insieme a loro ci metto anche lei!». Giustizia ferita, vite spezzate. Eppure, chi subì quell’infamia resistette, e non si fermò. «Quando uscii dal carcere, la mia non era libertà ma oppressione. Perciò continuai l’opera già iniziata» spiegò Garibaldo con il tono di chi sente di aver fatto solo il proprio dovere. Perché, appunto, «libertà e giustizia sono la vita di un popolo», «beni preziosi da difendere con tutte le forze». Allora, oggi, sempre.