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Se la sindrome «nimby» diventa virale

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la ricerca #n02.0

Se la sindrome «nimby» diventa virale

Con la rete la parola nimby non basta più per descrivere il fenomeno di opposizione conservatrice contro l’evoluzione della società.

Nimby è la sigla che riassume una locuzione inglese — not in my backyard, non nel mio cortile — per esprimere le contestazioni contro i progetti di opere e infrastrutture. La parola nimby non basta più per rappresentare il fenomeno perché la rete web, e in particolare la pervasività delle reti sociali (i social network come Twitter e Facebook) lo hanno trasformato: non più solamente la protesta locale di comitati di cittadini di un posto preciso ma una contestazione trasversale contro il cambiamento. Non si difende più solo il backyard; è come se il cortile si fosse globalizzato sul mondo intero, cibandosi di un no generalizzato, olistico. Nulla viene risparmiato: eventi (No Expo), l’uso di giacimenti (No Triv), la posa di una ferrovia (No Tav) o di un tubo (No Tap), il denaro (No Euro), il vapor d’acqua dei motori d’aereo (No Scie Chimiche), i radar (No Muos), i medicinali (No Vaccini), l’energia convenzionale (No Centrale) o rinnovabile (No Eolico).

Domattina a Roma nella sala della Stampa Estera le società Fleed e Public Affairs presenteranno una ricerca intitolata (si scusi la sequenza di simboli) #NO2.0 (da leggere «hashtag no due punto zero») ovvero «come il dissenso comunica sul web». Il rapporto analizza le dinamiche dei movimenti del no.

La ricerca in sintesi. Per cinque mesi, da settembre a gennaio scorsi, sono stati scanditi con un programma sperimentale 40 milioni di account sui social media e 100mila fonti web (tra le quali anche le attività web di chi scrive questo articolo) e 40 movimenti di opposizione. Sono state seguite 25.231 discussioni web e 400mila interazioni (commenti, condivisioni, retweet, “mi piace”) mappate e interpretate su base tematica e geografica.

Il distillato di questa massa enorme di dati dice: chi vuole realizzare un impianto, e il sistema pubblico che deve valutare il progetto, non hanno capito come parlare con i cittadini. Il modo attuale di consultazione della popolazione è quasi inesistente, spesso arrogante, quasi sempre sbagliato.

Il fenomeno No Tav è il movimento di protesta più attivo, con 13.391 discussioni nel periodo di rilevazione. No Expo, con 4.617 discussioni e 50mila interazioni, ha il maggiore tasso di crescita. Le zone più reattive paiono Lombardia, Piemonte, Lazio, Puglia, Sicilia, Abruzzo. Più territoriali le opposizioni ai giacimenti, concentrate in Abruzzo, Emilia Romagna, Piemonte, Basilicata, Campania e Sicilia ma con uno scambio continuo di esperienze con i movimenti simili in Spagna.

Twitter è il canale più usato per la mobilitazione delle opinioni, con una forte interrelazione con i hackattivisti di Anonymous; Facebook invece si presta meglio alla raccolta di adesioni. Il no è un concetto universale, comunicato e cementato sulla rete, che unisce e che travalica l’istanza locale. I movimenti del no rifiutano l’appartenenza politica e vantano con orgoglio (in qualche caso, millantano) l’origine dal basso, come risposta dei cittadini, corpi intermedi della società.

Un altro elemento comune delle opposizioni contro il cambiamento è il fatto che le parti (amministrazioni pubbliche, politici, cittadini in opposizione) conoscono poco il tema su cui danno risposte. Prima si dà la risposta (il no) e poi per darle una verosimiglianza si cercano conferme e si cancellano le smentite. I contestatori spesso si inventano li per lì ingegneri, economisti, geologi, esperti ambientali e medici epidemiologi; ricuperano vecchi studi farlocchi più volte smontati dal peer review scientifico; diffondono informazioni errate, allusive, parziali o di parte. Se dopo decenni di studi accurati darà una spiegazione che non coincide con la risposta precostituita, lo scienziato sarà accusato sul web di essere a libro paga, «la scienza ufficiale ci nasconde la verità».

Le argomentazioni cui fa ricorso l’opposizione sono in genere l’inutilità dell’oggetto contestato, il forte impatto ambientale, i costi eccessivi rispetto ai benefici, il sistema di malaffare o di arricchimento che vi è sotteso; spesso c’è la credenza di lobby, comitati d’affari o complotti. A volte queste considerazioni che motivano i no sono pertinenti, molto più spesso non lo sono. Ma tutte le motivazioni addotte per il no — che abbiano ragione o torto — nascondono sotto una veste razionale la paura emotiva per un cambiamento del mondo in cui si fatica a riconoscersi.

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