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La ripresa e il valore della stabilità

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tra economia e politica

La ripresa e il valore della stabilità

Togliamo innanzitutto dal tavolo un’accusa: non è vero che mettere la fiducia su una legge elettorale sia una violazione della Costituzione. Si può pensare che sia sbagliato, si può sostenere non senza ragione che sia una forzatura politica, ma non si possono dire inesattezze tanto marchiane .

La Costituzione e l’ordinamento italiano non prevedono in nessun punto che le leggi elettorali rientrino tra le materie su cui non si può mettere la fiducia. Inquinare il dibattito con un argomento così capzioso è – questo sì – un tentativo di confondere gli italiani.

Per il resto ogni argomentazione contro questa legge elettorale, e contro il metodo utilizzato per la sua approvazione, è certamente legittima. Ma ha senso, a un anno dalla prima (larga) intesa sulla legge elettorale, dopo 12 mesi di discussioni e di limature, dopo il voto bipartisan del Senato, mettere a rischio la stessa sopravvivenza del governo perché il meccanismo che incrocia preferenze e capilista bloccati non è giudicato sufficiente o perché si osteggiano le candidature multiple? E soprattutto ha senso, nel momento in cui l’economia comincia a dare timidi segnali di rilancio, mettere in piedi un’ordalia politica su questi temi riproponendo il rischio politico italiano nel dibattito continentale e sui mercati internazionali?

“Il pallone è mio e se non si fa come dico io lo porto via”, dicevamo da ragazzini quando dissentivamo dalla maggioranza dei compagni di gioco. Solo che in questo caso non è in discussione il proseguimento di una partitella di calcio su un campetto di periferia, ma la stabilità di governo in un momento cruciale per la ripresa economica. Il contesto internazionale è favorevole come mai. L’Europa ci offre lo scudo del quantitative easing. Anche l’economia reale italiana, pur in un contesto ancora difficilissimo, comincia a registrare i primi indicatori positivi, con il dato di marzo sulle attivazioni dei contratti che fa ben sperare, con gli ordinativi industriali in ascesa, con le immatricolazioni di auto che hanno fatto registrare una crescita del 7,4% nel 1° trimestre.

Mettere in discussione tutto questo riproponendo quell’instabilità politica, che è il male italiano di sempre, è un atto spinto di masochismo. Tanto più grave se a farsene agenti sono ex presidenti del Consiglio ed ex segretari di partito, tutte persone che in altre stagioni hanno provato sulla propria pelle quanto male possa fare il frazionismo e lo spirito di fazione.

All’Italia oggi non serve una crisi di governo e neppure un governo azzoppato da uno schiaffo della sua maggioranza sulla legge elettorale. Serve al contrario un esecutivo in grado di dare più sostanza al suo riformismo, un governo che venga incalzato sul fronte della concretezza, che venga sollecitato sull’attuazione dei provvedimenti, che venga indotto a produrre più fatti e meno comunicazione, più jobs act e decontribuzione e meno discussioni su tesoretti e clausole di salvaguardia.

Non possiamo accontentarci di una crescita all’1 per cento, dobbiamo puntare decisamente verso il 2 per cento. Ma perché ciò avvenga le riforme vanno irrobustite non fermate. I refoli di ripresa che in parte calano giù dalle Alpi e in parte sono il frutto tutto nostrano di imprese e lavoratori che non hanno smesso di crederci hanno bisogno di essere alimentati con la spinta di un mix fatto di stabilità e riformismo della concretezza. È questo che oggi il Paese si attende da una buona politica. Le risse in aula e gli assalti ai banchi del governo (anche da parte di chi aveva votato e sostenuto questa legge al Senato) servono solo a bruciare fiducia e a riportarci indietro di decenni.

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