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Il nocciolo duro dell’industria

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MANIFATTURA E INNOVAZIONE

Il nocciolo duro dell’industria

Milano, cento chilometri per cento chilometri. Di futuro. La città è oggi il cuore di un unico territorio sempre più coeso - una sorta di quadrato, che ingloba e modella buona parte della Lombardia e pezzi di Piemonte e Emilia Romagna - segnato dalla meccatronica e dal design, dal mobile e dal tessile, dall’agrindustria. Il nocciolo duro del Nord industriale e post-industriale.

Nove imprese ogni cento abitanti. Una densità industriale assai significativa.

La Grande Milano? È una idea ottocentesca. Che ha appunto in nuce una forma estrema di modernità. E che, oggi, si dilata in effetti fino alla stilizzazione di una città che è l’organo pulsante di un corpo più ampio. La metafora organicistica di Milano quale cuore di un sistema più complesso, che con il suo dinamismo trascende i semplici confini politico-amministrativi, risale a Giuseppe Colombo, fondatore della Edison e maestro di Giovanni Battista Pirelli, ministro delle Finanze e del Tesoro dei Governi Rudinì e per ventiquattro anni rettore del Politecnico. Dice Giorgio Bigatti: «Colombo la utilizzò diffusamente nel suo saggio “Milano industriale”. Era il 1881. La città, anche allora, ospitava l’Expo». In quella occasione l’Expo era nazionale e non internazionale come oggi. Ma, questo, poco cambia.

Bigatti, storico dell’impresa dell’Università Bocconi, sottolinea la spinta evolutiva di una città che, secondo una continuità storica di lungo periodo, si misura con la sua cinta daziaria – superandola costantemente – e si trova in perenne bilico fra il nocciolo duro urbanistico, la “campagna” limitrofa (per estensione le altre province e le altre città di oggi) e i mercati internazionali, nell’immagine del “filo di seta” che la lega a Lione e a Londra, a Vienna e a Francoforte. Il meccanismo – la crescita, l’assimilazione e l’inglobamento – trova un riscontro “comunale” con il Fascismo nel 1923 (con l’assorbimento di 20 Comuni dell’hinterland, fra cui Greco e Niguarda) e si proietta, nel secondo dopoguerra, in una dimensione più ampia con le amministrazioni del Centrosinistra, che provano a regolare attraverso la pianificazione territoriale un fenomeno di vitale tracimazione urbana post Boom Economico che viene raccontato, per esempio, nel volume della Banca Popolare “La Nuova fascia industriale di Milano” che – oltre alle fotografie di Federico Patellani - raccoglie testi, fra gli altri, di Giorgio Bocca e di un grande urbanista come Giuseppe Samonà.

Da allora, il tema dell’adattamento dei codici e delle pratiche amministrative alla realtà milanese – nella sua liquida propensione a estendersi – diventa una costante della nostra storia repubblicana. Fino, dagli anni Novanta, alla città metropolitana. E oltre. Un esercizio che peraltro negli ultimi tempi sta riguardando, in tutto il Paese, la dialettica fra governo locale e governo nazionale. Soprattutto in virtù della cancellazione – formale – della provincia. E con la sostanziale sovrapposizione – in alcuni casi - fra quest’ultima e la città metropolitana.

«Alcune specifiche policy – riflette Gabriele Pasqui, direttore del dipartimento di architettura e di studi urbani del Politecnico di Milano - possono essere efficaci sul piano della città metropolitana: basti pensare all’attrazione degli insediamenti imprenditoriali e alle misure di sostegno delle filiere produttive. Altri aspetti, più di politica economica, hanno bisogno di scale diverse: per esempio le infrastrutture».

Il problema è la costruzione – non solo a livello concettuale ma anche nella realtà operativa – di categorie in grado di “inseguire” le rapidi mutazioni dell’esistente. Qui, come nel resto d’Italia. Il 6 luglio al Politecnico di Milano verrà presentata la ricerca “Territori post-metropolitani. Oltre la città metropolitana”, che ha come cardine la Milano nella versione “Milano cento chilometri per cento chilometri”.

«Milano – spiega Valeria Fedeli, docente di urbanistica nello stesso dipartimento – è al centro di un quadrato il cui lato è lungo cento chilometri. Il risultato è la definizione di una macroarea che ingloba Varese e Lecco, Como e Monza-Brianza, Cremona e Pavia, Bergamoe Lodi, Piacenza e Novara». Da questa figura restano fuori Torino e Brescia. Ma, di certo, c’è la maggior parte del cuore del Nord-Ovest industriale nella sua versione più evoluta: quella in cui il fordismo delle fabbriche novecentesche ha ceduto il passo all’ibridazione terziarizzata con l’economia della conoscenza.

«La questione – riflette Fedeli – è la gestione dei flussi e la sintesi fra proliferazione urbanistica, crescita economica e sviluppo infrastrutturale». Nel caso della coincidenza fra l’area metropolitana e l’attuale provincia di Milano, si contano 3 milioni di abitanti, 321mila imprese per 1,4 milioni di addetti e – a livello di densità imprenditoriale – dieci imprese ogni cento abitanti. Considerando la “Milano 100 chilometri per 100 chilometri”, vi sono 7,8 milioni di abitanti, 726mila imprese per 2,9 milioni di occupati e – a livello di densità industriale – 9,2 imprese ogni cento abitanti.

Dunque, si tratta di vasti territori incardinati nella Grande Milano che, nella loro ricchezza variegata, sono strutturalmente omogenei. E per cui sono auspicabili – anche in una ottica di competizione con le altre macro piattaforme territoriali europee – politiche economiche e industriali di nuova generazione. La sfida del cambiamento, ancora una volta, parte da qui.

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