Il “capitalismo di relazione”, di cui il premier Matteo Renzi ha invocato la fine, nel suo incontro di lunedì scorso a Piazza degli Affari con un’eletta schiera di banchieri e imprenditori, è in realtà già morto, da tempo, in quelle che erano le sue precipue forme e versioni. Tanto che si tratta di una vicenda passata ormai agli annali della nostra storia economica, sebbene sia ravvisabile qualche sua traccia residua.
Peraltro, alla luce di un giudizio complessivo ed equilibrato, è dato rilevare in quell’esperienza, insieme a determinate conseguenze di segno negativo, quali emersero in pieno negli anni Novanta, vari fattori di particolare rilievo che concorsero in precedenza, durante i diversi tornanti del secondo dopoguerra, ad assecondare il processo di sviluppo e consolidamento del sistema economico italiano. E che ebbero per protagonista, come è noto, un istituto come Mediobanca, gestito a lungo da Enrico Cuccia con altrettanta determinazione che sicurezza di agire per il meglio in una situazione del tutto peculiare.
Va ricordato a questo riguardo che Mediobanca venne creata nel 1946 quale nuovo ente intermediario, concepito da Raffaele Mattioli, per colmare il vuoto apertosi nel sistema finanziario dopo la scomparsa (in seguito alla riforma bancaria del 1936) delle “banche miste” di deposito e investimento. In sostanza, il suo compito specifico consisteva nell’esercizio del credito industriale a medio termine, in funzione complementare alle ordinarie attività delle tre banche d’interesse nazionale (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma). Successivamente, ai tempi del “boom economico”, ma di cronica scarsità di capitali di rischio, Cuccia trasformò Mediobanca in un’autonoma banca d’affari, con un duplice obiettivo: da un lato, di bilanciare l’influenza delle maggiori banche pubbliche con quella di un gruppo di grandi azionisti privati; dall’altro, di patrocinare dei progetti di raccordo fra le imprese dell’Iri e quelle private in alcuni settori strategici. Di qui la formazione, sotto la sua egida, del cosiddetto “salotto buono” del capitalismo italiano (con in testa quello dinastico rappresentato dai gruppi Fiat e Pirelli-Orlando), nonché il compromesso pubblico-privato, stilato nel 1971, nel controllo della Montedison, a cui avrebbero fatto seguito, sempre con la regia di Cuccia, la successiva privatizzazione nel 1981 del colosso chimico e il suo passaggio nel 1986 al gruppo Ferruzzi.
Il motivo preminente di queste e altre operazioni promosse da Cuccia, attraverso appositi patti parasociali di sindacato (e da lui concluse, talvolta, non senza attriti con le tre Bin che pur erano le finanziatrici di Mediobanca), era di garantire la stabilità degli assetti proprietari delle imprese private di maggior stazza, altrimenti esposte, per certi loro elementi intrinseci di debolezza, al rischio, manifestatosi in particolare durante le reiterate avverse congiunture degli anni Settanta, di una perdita di forza e peso specifico: tanto più di fronte a una crescente invadenza della politica e nel mezzo di una persistente conflittualità sindacale. Ne sarebbero andati di mezzo, secondo Cuccia, non solo i delicati equilibri vigenti fra mano pubblica e mano privata, ma anche le possibilità dei gruppi privati più eminenti di sbarrare il passo a “incursioni predatorie” di multinazionali straniere.
Senonché, nel decennio successivo, in seguito ai mutamenti in corso nello scenario economico internazionale e ai primi smobilizzi attuati nel sistema delle Partecipazioni statali, il ruolo svolto fino ad allora da Mediobanca, quale stanza di compensazione a presidio dei principali potentati privati, cominciò a essere contestato, in quanto impediva in pratica a nuovi soggetti economici affacciatisi alla ribalta di attingere da un mercato come quello italiano (già di sé angusto) risorse adeguate per la loro crescita dimensionale e di statura. In effetti, ancorché Mediobanca non detenesse una posizione di monopolio nel mercato finanziario, risultava pur sempre preminente la sua azione tendente a privilegiare le società già quotate in Borsa mediante aumenti di capitale (tramite, in più di una circostanza, il collocamento di azioni di risparmio, che non scalfivano gli assetti di controllo radicati da tempo), partecipazioni incrociate e altre operazioni contrassegnate da analoghe finalità volte a blindare le strutture di vertice preesistenti.
Dopo la privatizzazione di Mediobanca, avviata nel marzo 1987, con l’avvento alla presidenza dell’Istituto di Antonio Maccanico, e resa definitiva un anno dopo, non senza l’apporto dello stesso Cuccia, andò declinando progressivamente, da allora, con gli esordi della globalizzazione e il restringimento degli spazi dei mercati di casa, l’autoreferenzialità e la centralità del “capitalismo relazionale”.
© Riproduzione riservata