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Un’alleanza contro la povertà in Italia

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Un’alleanza contro la povertà in Italia

Sapete quali sono gli unici due paesi europei privi di una politica nazionale contro la povertà? L’Italia e la Grecia. Se il Governo Renzi deciderà di colmare questo “buco” decisivo del nostro welfare avrà dimostrato un’attenzione senza precedenti ai più deboli, altrimenti si aggiungerà alla lunga serie di esecutivi che hanno girato lo sguardo dall’altra parte.

La povertà mette radici in Italia

Le persone in povertà assoluta, cioè la vera e propria indigenza, sono aumentate dai 2,4 milioni nel 2007 ai 6 milioni di oggi, circa il 10% della popolazione. Nel 2007 la povertà assoluta si concentrava al Sud, tra gli anziani, tra le famiglie senza lavoratori e quelle con almeno tre figli. Negli anni più recenti, oltre ad un’ulteriore diffusione tra i gruppi menzionati, si è radicata in parti della società sino a poco tempo addietro ritenute al sicuro, come il nord, i giovani, i nuclei con lavoratori e quelli con due figli. L’attesa ripresa economica dovrebbe ridurre l’avanzata della povertà ma l'indebolimento strutturale della società italiana rende irrealistico immaginare di tornare ai livelli del 2007.

Allearsi contro la povertà, per la prima volta

Ad inizio 2014, la gran parte dei soggetti impegnati nei territori a favore di chi vive tale condizione si è unita nell’Alleanza contro la povertà in Italia, della quale chi scrive è coordinatore scientifico. L'Alleanza è costituita oggi da 33 organizzazioni tra realtà associative – come Acli, Caritas, Forum Terzo Settore, Banco Alimentare, Società di San Vincenzo e Save the Children – rappresentanze dei Comuni e delle Regioni (Anci, Lega delle Autonomie, Conferenza delle Regioni) e Sindacati (Cgil, Cisl e Uil). Mai, in precedenza, un fronte tanto ampio di attori sociali, istituzionali e sindacali si era unito per promuovere adeguate politiche contro l’indigenza. Mettere insieme le forze, in particolare tra soggetti con storie e identità eterogenee, è un’operazione sempre complicata. I componenti dell’Alleanza vi hanno dedicato i propri sforzi per rendere più forte la voce degli ultimi e per portare una proposta d’intervento dettagliata e condivisa: il Reddito d’Inclusione Sociale (Reis).

L’attuazione fa la differenza

L’impianto del Reis riprende le più significative elaborazioni presentate negli anni per sopperire all’assenza di una misura nazionale (variamente definita, il nome più comune è Reddito minimo) contro la povertà assoluta. Il Reis é destinato a tutti coloro i quali versano in questa condizione, che ricevono un contributo economico, calcolato su base familiare, pari alla differenza tra la soglia di povertà e il reddito del nucleo. Ad esso si affiancano percorsi individuali di inserimento sociale o occupazionale, realizzati grazie ai servizi – sociali, educativi, per l’impiego – e utili a costruire nuove competenze e/o ad organizzare diversamente la propria esistenza. I servizi sono forniti dai Comuni, cui compete la regia del sistema, dal terzo settore e dagli altri soggetti del territorio. A fronte di un’impostazione della misura in linea con precedenti proposte, la novità del Reis risiede nella diversa e particolare attenzione dedicata ad articolare tutti i passaggi da compiere per tradurla in pratica. La dimensione attuativa finora ha suscitato ridotto interesse nel dibattito ma risulta decisiva se si vuole evitare il destino sperimentato dalle molte riforme che hanno incontrato innumerevoli difficoltà ad essere realizzate. La centralità assegnata all’attuazione si traduce in un incisivo sistema di monitoraggio, nell’individuazione di equilibrati rapporti tra Stato, Regioni e Comuni, in un ampio insieme di strumenti per sostenere lo sforzo operativo a livello locale e nella previsione di un percorso d’introduzione graduale.

Non il solito intervento “tampone”

L’Alleanza propone di introdurre il Reis gradualmente, in un quadriennio, attraverso il Piano nazionale contro la povertà. Sin dall’avviamento del Piano, il legislatore assume precisi impegni riguardanti il punto di arrivo e le tappe intermedie. Ciò significa indicare che il quarto anno corrisponde al primo del Reis a regime e specificare l’ampliamento dell’utenza previsto in ognuna delle annualità precedenti. Si comincia da coloro i quali versano in condizioni di maggiore indigenza e progressivamente si raggiunge anche chi sta “un po' meno peggio” sino a rivolgersi – a partire dal quarto anno - a tutti i poveri assoluti.

Il Piano permette di rispondere subito alle emergenze più gravi (il primo anno il Reis andrebbe ai 1,4 milioni di persone in situazione di maggiore povertà), dando il via a un percorso di riforma strutturale, destinato a modificare in profondità il welfare italiano. L’introduzione del Reis rappresenta un’innovazione ambiziosa, che richiede al sistema di welfare locale un robusto sviluppo. Procedere per gradi è l’unica strada che può garantire adeguati tempi di apprendimento e di adattamento organizzativo a Comuni, Terzo Settore e agli altri soggetti coinvolti nel territorio, ma è solo la prima delle condizioni indispensabili. La progressività deve andare di pari passo con l’esistenza di certezze sul percorso e sugli stanziamenti previsti per gli anni a venire: questa sicurezza è imprescindibile per sviluppare la rete dei servizi locali, permettendo a chi vi opera di realizzare i necessari investimenti in progettualità, risorse umane e finanziarie.

Infine, l’incremento dei finanziamenti pubblici viene diluito nel tempo. A regime la misura costa 7,1 miliardi e l’incremento di spesa necessario viene ripartito nei quattro anni, in ognuno dei quali l’assegnazione risulta superiore al precedente. Nel primo si prevede di spendere 1,8 miliardi, suddivisi tra 1.400 milioni per la componente monetaria e 400 milioni destinati a Comuni e Terzo Settore per i percorsi di inserimento sociale.

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