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A Tel Aviv nasce il World jewish economic forum

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la «davos» ebraica

A Tel Aviv nasce il World jewish economic forum

Dalla montagna incantata al wadi. Dalla conca svizzera di Davos ai canaloni desertici scavati da fiumi ormai prosciugati da secoli. Evidentemente i tempi erano maturi perché nella “Silicon Wadi”, la scintillante enclave israeliana dove si concentra un numero crescente di imprese tecnologiche e start-up, prendesse corpo un foro di incontro mondiale sul futuro dell’economia (ma non solo).

È di pochi giorni fa la nascita a Tel Aviv del World Jewish Economic Forum, la “Davos” ebraica, appunto. Promotore è Jonathan Pacifici, italiano di 36 anni trasferitosi in Israele quando ne aveva 19, e da tempo attivo nel campo del venture capital con la Wadi Venture, società molto attiva nella Silicon Valley israeliana, che rappresenta la massima concentrazione pro-capite al mondo di imprese hi-tech, circa cinquemila su otto milioni di abitanti. «Ci siamo resi conto che rappresentasse un’anomalia il fatto che non ci fosse un forum ebraico legato al progresso e ai cambiamenti, c’era bisogno di un super-connettore dei temi più economici che legasse il mondo ebraico nella sua complessità» dice Pacifici. Insomma, l’idea di fondo è dare corpo e voce agli “stakeholder” dell’economia e della società globale in un foro aperto alle esperienze interessate a dialogare con l’universo economico ebraico, e non solo israeliano. Anzi, qui l’ambizione del Wjef è quello di rafforzare le condizioni affinchè Israele possa fungere da hub per una vasta area del mondo. L’ecosistema israeliano delle start up nel campo dell’hi-tech è un fenomeno che cresce del 20-25% annuo, che arriva dritto fino alla borsa Nasdaq di New York e che nel 2014 ha raccolto 3,4 miliardi di euro. Pacifici prevede che il primo evento possa tenersi entro un anno: intanto partirà un road show in Europa e Usa per presentare l’iniziativa e raccogliere le adesioni, che già stanno arrivando dalla gran parte delle imprese israeliane e dalle sedi delle multinazionali, che sono in questo caso oltre cinquanta. Ma perché un Forum ebraico? Non può essere scambiato come un club chiuso e di natura strettamente religiosa, il che sarebbe quasi una contraddizione quando si parla di libero mercato? «Al contrario… Il mondo è globale, e questo non è uno slogan. Per noi è un punto importante l’identità, e questo rappresenta un punto di raccolta delle esperienze, per poterle poi condividere. Eppoi perché nessuno si stupisce dell’esistenza di reti di tutti i tipi, da quelle geografiche a quelle delle etnie? Noi crediamo che quello identitario sia un aspetto non solo legittimo ma di forte valore aggiunto. E poi delle nostre innovazioni, e sono tante, ne beneficia il mondo intero, non certo solo gli ebrei, che sono stati i primi al mondo a praticare le regole della globalizzazione. Nel Medio Evo erano infatti i tribunali rabbinici che giudicavano le controversie commerciali nelle varie parti dell’Europa e del Mediterraneo, con le stesse regole ovunque, in rispetto quindi della certezza del diritto. Regole che in seguito divennero di uso comune».

Nella presentazione ufficiale del Forum sono riportati dei numeri che rappresentano l’idea di fondo della “connettività”: negli ultimi 112 anni delle circa 800 persone che hanno vinto il premio Nobel il 20% è ebreo. E nel business? Nella lista stilata da Forbes l’11% dei miliardari al mondo è ebreo, con un patrimonio stimato di 812 miliardi di dollari. «Ma quelle attuali, come quelle passate, non sono mai state delle ricchezze chiuse: hanno fatto la prosperità dei rispettivi paesi, dalla Spagna medioevale ai paesi dove si sviluppò la Rivoluzione industriale. Non solo. In Israele c’è una fitta rete di organizzazioni assistenziali e filantropiche, collegate ad un network internazionale: la nostra ambizione è creare un incontro tra imprese e assistenza per innescare investimenti e occupazioni, attraendo giovani da tutto il mondo». Il board dei governatori del Wjef deve essere ancora creato, ma per il momento l’organismo è guidato da un gruppo ristretto, di cui fanno parte oltre a Pacifici – presidente – anche Mycol Benhamou, giovane direttore generale in Israele della banca svizzera Cbh, e Daniele Moscati, country manager di Intercash in Israele, in qualità di vice presidenti, e Moty Rucham, fondatore del Tamuz Group, che ricopre la carica di chief operating officier. Ma Pacifici ha anche una storia alla spalle che ci riporta a quel 9 ottobre 1982, all’attentato alla Sinagoga di Roma dove perse la vita Stefano Gaj Tachè, di due anni e dove rimasero ferite 37 persone. Una di queste era Jonathan, che allora aveva quattro anni: nel suo ufficio è appesa la foto in bianco e nero di quel giorno, la foto di una vigilessa romana che lo tiene in braccio.

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