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Ecco come far convivere Londra e Bruxelles

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il futuro della ue

Ecco come far convivere Londra e Bruxelles

Ci sono due treni che stanno andando l’uno in direzione dell’altro. Il primo è il treno della Gran Bretagna (GB), il secondo é quello dell’Unione Europea (UE). Il guaio è che stanno viaggiando a velocità sostenuta sullo stesso binario. Dopo lo straordinario successo elettorale del partito conservatore, il nuovo governo di David Cameron si è formalmente impegnato ad indire un referendum sulla partecipazione britannica all’UE entro il 2017, il cui esito sarà quello di allargare la distanza tra il paese e il continente.

A loro volta, le autorità dell’UE, la Commissione in particolare, continuano a pensare che l’uscita della GB (il cosiddetto “Brexit”) sia poco probabile, visti i densi interessi economici e commerciali che collegano la GB agli altri 27 membri dell’UE. Se il treno britannico è guidato dalla politica interna del paese, il treno dell’UE è guidato dalla logica interna ai suoi apparati. Se continua così, è difficile che i due macchinisti possano intendersi per evitare l’impatto.

La GB è in rotta di collisione con l’UE da molto tempo. Sicuramente dal Trattato di Maastricht del 1992 quando, per consentire ai paesi dell’Europa continentale di dare vita all’Unione Economica e Monetaria (UEM) che avrebbe gestito la moneta comune, riuscì ad ottenere un “opt-out” da quest’ultima (cioè la possibilità di non adottarla). Da allora, per la GB, gli “opt-out” si sono moltiplicati. Non fa parte degli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone nel territorio dell’UE. Non è costretta ad adottare decisioni prese a maggioranza qualificata nel campo della cooperazione giudiziaria e di polizia ai fini del contrasto alla criminalità. Per ottenere la sua firma al Trattato di Lisbona del 2009, la GB è stata esonerata dal rispettare la Carta dei Diritti Fondamentali costitutiva di quel Trattato, sottraendosi così alla giurisdizione della Corte Europea di Giustizia in materia. Nel luglio del 2011, il parlamento di Westminster ha approvato una legge (European Union Act) che impone a qualsiasi governo britannico di indire un referendum ogni volta si verifichi un trasferimento di competenze dagli stati al centro dell’UE. Naturalmente, la GB non è l’unico paese che beneficia di opt-out, né è l’unico che si oppone ad un rafforzamento di Bruxelles a svantaggio delle capitali nazionali. Tuttavia, è il paese che con più determinazione e consistenza ha perseguito una precisa linea sin dalla sua adesione all’UE nel 1973. Secondo la GB l’integrazione dovrebbe avere un carattere esclusivamente economico, evitando di intaccare le proprietà essenziali della sovranità nazionale. La decisione di David Cameron di indire un referendum nel 2017 deriva da una diffidenza diffusa del paese nei confronti dell’integrazione così come si è venuta sviluppando dopo Maastricht. La crescita impetuosa dell’UKIP di Nigel Farage ha radicalizzato quella diffidenza, ma non l’ha creata.

È evidente che un’uscita della GB dall’UE (e dal mercato unico) avrebbe costi molto alti per l’economia del paese. Ma oltre ai costi economici, quell’uscita porterebbe con sé anche alti costi politici. Certamente, vi sono paesi (come la Svizzera, la Norvegia, l’Islanda o il Liechtenstein) che partecipano al mercato unico pur non essendo membri dell’UE. Nel caso svizzero, ciò avviene attraverso accordi settoriali e bilaterali. Nel caso degli altri tre paesi, che insieme costituiscono la “European Economic Area”, ciò avviene attraverso rapporti strutturati tra quest’ultima e l’UE. Il punto è che, in entrambi i casi, i paesi in questione debbono adottare la legislazione dell’UE per potere operare nel mercato unico, senza però contribuire ad influenzarla in quanto esterni alle istituzioni dell’UE. È poco plausibile ritenere che simili soluzioni possano essere adottate per regolare i futuri rapporti tra l’UE e la GB. Un paese dell’importanza della GB non potrà limitarsi a recepire al proprio interno la legislazione approvata al suo esterno. Se la GB non ha mai chiarito a sé stessa quale ruolo vuole avere in Europa, la diffidenza britannica è stata però regolarmente minimizzata dalle autorità dell’UE. I vertici e la tecnocrazia della Commissione hanno continuato a sostenere che l’integrazione è un processo unitario e inclusivo, anche se i singoli paesi possono adottare tempi diversi per raggiungere il fine condiviso. In realtà la GB (e con essa diversi paesi dell’est e del nord dell’Europa) persegue una finalità diversa da quella dei paesi dell’Europa continentale e occidentale. Una finalità che è inconciliabile con l’approfondimento del processo di integrazione che si è verificato all’interno dell’UEM.

Se così è, per evitare che i due treni si scontrino, occorre avviarli su binari diverse. Tale smistamento si può fare solamente con una differenziazione dei trattati. Il processo di integrazione europea ha raggiunto una tale complessità che non è più gestibile con il paradigma funzionale del paso dopo passo. È necessario definire contestualmente un Trattato del mercato unico (inclusivo di tutti i paesi europei interessati esclusivamente all'integrazione economica) ed un Trattato dell’unione politica (basato esclusivamente sui paesi dell’eurozona). Il primo può coincidere con il Trattato di Lisbona alleggerito di quelle competenze che non sono collegate al funzionamento del mercato interno. Il secondo dovrebbe invece istituzionalizzare il processo verso un’unione sempre più stretta, come celebrato dal Trattato di Roma del 1957. In questo modo, per la GB, non si tratta di uscire dall’UE ma di contribuire alla differenziazione costituzionale di quest’ultima.

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