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Un bilanciamento delicato

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DIRITTI DEGLI ADOTTATI

Un bilanciamento delicato

L’anonimato della madre naturale va reso più flessibile. Lo aveva affermato un anno e mezzo fa la Corte costituzionale quando aveva dichiarato incostituzionale quella parte della legge sulle adozioni che, nel disciplinare il diritto del figlio adottato a conoscere le proprie origini, precludeva, senza alcuna possibilità di modifica di tale volontà, l'accesso all'identità della madre che aveva partorito in anonimato (Sent. 278/2013). La sentenza, nel sottolineare l'eccessiva rigidità di una norma che rendeva irreversibile la scelta per l'anonimato, ribadiva però la necessità che il legislatore individuasse un bilanciamento tra il diritto della donna alla riservatezza e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini. Tanto è vero che, come acutamente osservava sulle colonne di questo giornale Paolo Morozzo della Rocca, una cosa è il diritto alla riservatezza della donna, altra è quello alla conservazione all'anonimato. In questo caso il bilanciamento, pur essendo sostanziale, passa per aspetti esclusivamente procedimentali, come hanno riconosciuto gli stessi giudici: sta al legislatore trovare le modalità di accesso ai dati identificativi e le modalità con cui verificare la volontà della donna, senza rischi per la sua riservatezza e per la serenità della sua vita attuale.

Dal punto di vista della logica giuridica, per rispondere alla richiesta di flessibilizzazione del diritto all'anonimato formulata dai giudici costituzionali, le vie possibili per verificare la volontà sono due, fermo restando che deve essere il figlio a chiedere di conoscere l'identità materna: a) la madre può, a prescindere da una concreta richiesta, dichiarare di rinunciare al proprio anonimato. In quel caso la dichiarazione giace fino a che non vi è specifica istanza da parte del figlio; b) la madre può essere interpellata per scegliere solo al momento della formalizzazione della richiesta da parte del figlio.
Il testo base della Commissione Giustizia, di prossima discussione in aula, ha previsto – correttamente, a mio avviso – entrambe queste possibilità, individuando tanto nella dichiarazione della madre che nell'interpello del figlio le modalità attraverso cui dare attuazione al diritto alla conoscenza delle origini biologiche. Ma il problema sta proprio nelle procedure individuate per raccogliere la volontà della madre e per verificarla nel caso di sua inerzia.
La scelta della Commissione Giustizia di affidare agli ufficiali di stato civile la raccolta di queste dichiarazioni non minimizza i rischi connessi al trattamento dei dati personali, anche sensibili, della donna. Sarebbe stato preferibile un unico registro nazionale gestito con le massime garanzie di riservatezza e con un'unica procedura stabilita per legge o regolamento: in questo senso, alcune proposte avevano individuato il Garante privacy come titolare del registro.

In secondo luogo, come ha correttamente osservato la Commissione Affari costituzionali nel suo parere, la nuova procedura, affidata interamente al circuito giurisdizionale dei Tribunali per i minorenni, deve però assicurare la massima riservatezza della donna e ridurre al minimo i rischi privacy. Il senso, secondo me, è quello di suonare un campanello d'allarme rispetto a prassi e procedure d'azione che possono variare da Tribunale a Tribunale in maniera non uniforme nel territorio nazionale, a tutto svantaggio delle donne e della loro riservatezza. Per capire di quali rischi si parla basta immaginare centinaia di certificati di assistenza al parto e centinaia di cartelle cliniche che vengono trasmesse da un ufficio a un altro, con modalità spesso non sicure e rispettose della privacy. Altrettanto condivisibile l'osservazione della Commissione Affari costituzionali e della Commissione Affari sociali sulla inopportunità di consentire libero accesso all'identità della donna in caso di morte. Accettare che l'identità della donna morta possa essere svelata è l'equivalente logico di ritenere che la sua volontà sia mutata poco prima di morire, una “presunzione di revoca” del tutto irragionevole e in contrasto con la più generale tutela dei dati delle persone defunte ed i corrispondenti limiti come riconosciuti dal Codice privacy all'articolo 9. Meno comprensibile sarebbe una norma transitoria volta presumibilmente a precludere il diritto di accesso alle persone già adottate, vanificando così, di fatto, il senso della pronuncia dei giudici e dello stesso intervento normativo.

Non può esservi bilanciamento, e dunque, corretta applicazione della sentenza della Corte, se si fa prevalere sempre e comunque la volontà del figlio su quella della donna (in vita o in morte). Anche la legittima scelta del legislatore di prestare particolare attenzione alla volontà del figlio non può travolgere il rispetto delle scelte, certamente dolorose, delle donne.

Licia Califano è componente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali