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Merito a scuola, se l’inclusione produce esclusione

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istruzione

Merito a scuola, se l’inclusione produce esclusione

Non so se l’avete notato anche voi, ma sulle riforme di Renzi sta succedendo una cosa nuova, e piuttosto interessante: la riconciliazione fra nemici di sempre. Ci sono persone che la pensano in modo diametralmente opposto, che non sono mai andate d’accordo su nulla, che hanno visioni del mondo inconciliabili, ma che, d’improvviso, come per miracolo, si trovano dalla stessa parte della barricata, accomunate dal rifiuto per le leggi che il premier si sforza di portare a casa, e qualche volta da qualcosa di ancora più primordiale: la pura antipatia, una sorta di rifiuto antropologico nei confronti del nuovo inquilino di Palazzo Chigi, un atteggiamento che rischia di oscurare anche gli elementi positivi che pure esistono in alcune riforme.

Quello della scuola è, probabilmente, il terreno su cui la convergenza fra nemici è più netta e visibile. E la ragione è presto detta: le riforme di Renzi, qualche timidissimo passo in senso meritocratico lo fanno, mentre il mondo degli insegnanti vede con ostilità qualsiasi meccanismo di valutazione individuale. Era vero una quindicina di anni fa, quando l’idea del “concorsone” per determinare gli aumenti di merito agli insegnanti costò il posto a Luigi Berlinguer, ministro dell’istruzione dell'epoca. Ed è vero oggi, nonostante i meccanismi meritocratici di cui si parla siano meno incisivi di quelli di allora, e il ministro dell’istruzione in carica possa dormire fra due guanciali.

In questo quadro la posizione più curiosa è quella dei sindacati. Accecati dagli slogan renziani, non paiono accorgersi che la sostanza della riforma, quella che determinerà i cambiamenti più tangibili, è di tipo burocratico-assistenziale. Burocratico perché la scuola si prepara a mettere in piedi un elefantiaco apparato di “autovalutazione” (analogo a quello che sta soffocando l'università), che assorbirà una quota sempre maggiore delle energie degli insegnanti, a tutto danno della loro funzione primaria, che è di trasmettere conoscenze, non certo di fare riunioni e compilare “griglie” (che parola orribile!). Assistenziale perché, come ha notato Luisa Ribolzi qualche giorno fa su questo giornale, il cuore della riforma è l’assunzione dei precari, ovvero «un problema del mercato del lavoro intellettuale», non certo l’innalzamento della qualità dell’istruzione. E questo in una situazione in cui l’Europa da anni ci segnala che abbiamo troppi insegnanti e risultati non commisurati alle risorse impiegate, specie in alcune regioni meridionali.

È paradossale: chi ha una visione liberale dell’istruzione è scontento della riforma di Renzi perché di meritocratico vi trova ben poco (dov’è finita l’abolizione del valore legale del titolo di studio?), eppure questo pochissimo è sufficiente a incendiare gli animi di insegnanti, studenti e sindacati.

I quali sindacati, a loro volta, anziché rallegrarsi che in una situazione di “spending review” si trovino risorse per assumere 100 mila precari, trovano che le assunzioni dovrebbero essere ancora di più, in perfetta continuità con le dissennate politiche di spesa che hanno portato l’Italia al disastro.

Ma non voglio inoltrarmi troppo nei meccanismi interni della riforma della scuola, tanto più che non si sa ancora quale sarà il testo di legge finale. Quel che vorrei dire, invece, è come il problema della scuola appare dal mio angolo visuale, che è quello di un professore universitario che la scuola la vede nei risultati che produce, ossia nella qualità dei ragazzi e delle ragazze che si iscrivono a una facoltà. Ebbene, quel che mi passa sotto gli occhi è questo.

Primo. Le matricole che si iscrivono all’università non hanno quasi mai un livello di preparazione corrispondente al titolo di studio che esibiscono. Al termine di un esame, quale che sia stato il suo esito, ho l’abitudine di chiedere allo studente quali studi secondari ha fatto, e che tipo di istruzione ha ricevuto. Il quadro che ne emerge è spesso drammatico: continui cambi di insegnante, insegnanti che saltano completamente parti del programma, insegnanti che infliggono agli allievi le loro personali manie. La autodiagnosi più comune del mio studente è: «non ho le basi».

Secondo. La maggior parte degli studenti non è in grado di scrivere correttamente in italiano, e si perde di fronte a problemi matematici assolutamente elementari. Il lessico è poverissimo, e l’organizzazione logica primitiva o assente. Quando dobbiamo valutare un testo, tipo una relazione o una tesi di laurea, una parte spropositata del nostro tempo va alla mera correzione della lingua. Spesso le università sono costrette a organizzare “corsi di allineamento” per le matricole, al solo scopo di colmare lacune lasciate dalla scuola.

Terzo. Quando ci chiediamo qual è il livello scolastico che ha generato un simile deserto, spesso dobbiamo concludere che non è solo o tanto la scuola secondaria superiore, ma è la scuola dell’obbligo. Le lacune più vistose, ad esempio ortografia e aritmetica elementare, sono chiaramente omissioni della scuola elementare.

Quarto. Quasi tutto quel poco che la scuola ancora insegna, nel giro di pochissimi anni viene dimenticato. Può capitare che uno studente di 19 anni ti dica che sì, certo che quell’argomento lo abbiamo fatto, ma «sono passati già 2 anni», come se fosse normale che quasi tutta la conoscenza evapori (tanto si trova tutto su internet).

Quinto. Gli studenti che, dopo 3 + 2 anni, sono in grado di scrivere una tesi di laurea comparabile a quelle delle due generazioni precedenti sono una infima minoranza. Per vedere qualcosa di leggibile bisogna aspettare la fine del dottorato, il che significa: oggi ci vogliono circa 21 anni per ottenere quello che un tempo si otteneva in 17. Il sistema dell’istruzione, a quanto pare, è l’unico settore in cui la produttività anziché aumentare è in costante diminuzione da decenni.

Si potrebbe continuare, ma vorrei aggiungere solo una considerazione, la più amara ma forse la più importante, almeno per me. È triste vedere tanti ragazzi che non riescono a completare l’università, o addirittura non provano neppure a iniziarla, solo perché la scuola non li ha preparati abbastanza. Si dicono tante belle parole sulla dispersione scolastica, sulla necessità di «non perdere per strada i ragazzi», ma la realtà è che alcuni dei danni cognitivi che noi osserviamo nei ragazzi che frequentano l’università sono irreversibili, e sono quasi sempre il risultato di una scuola che ha abdicato alle sue responsabilità formative. Un malinteso senso di solidarietà, amicizia, e benevolenza verso gli allievi spesso induce gli insegnanti ad abbassare drammaticamente gli standard, con l’idea di includere tutti. Ma noi che osserviamo il segmento terminale di questo processo, siamo purtroppo costretti ad avvertire tutti – ragazzi, famiglie, insegnanti e presidi più o meno “sceriffi” – che è proprio la nostra indulgenza che depriva i ragazzi, nel senso letterale che li priva di possibilità di vita cui avrebbero diritto.

C’è un punto, infatti, oltre il quale l’inclusione si capovolge in esclusione: l’università ha abbassato moltissimo gli standard negli ultimi decenni, ma ci sono limiti sotto i quali non è possibile andare, almeno per le materie scientifiche. E lo stesso vale per un liceo: si può spostare l’asticella sempre più in basso, ma il latino sarà sempre latino, la matematica matematica, la grammatica grammatica. Gli inclusi di oggi sono spesso gli esclusi di domani, e chi miracola un ragazzo che non sa nulla lo condanna ad essere fermato alla stazione successiva.

Di questo, mi piacerebbe che una riforma della scuola si occupasse un po’ di più. Ma capisco Renzi e i politici. In fondo le proteste di questi giorni mostrano che nel mondo della scuola sono altre le cose su cui ci si appassiona e ci si divide: la stabilizzazione dei precari, le carriere degli insegnanti, i finanziamenti alle scuole private, il sacrosanto diritto allo studio. E se queste sono le priorità della società civile, è vano chiedere alla politica di averne altre.

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