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La bellezza di farsi guidare nelle città

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le iniziative del sole

La bellezza di farsi guidare nelle città

«A h! nessun diletto può̀ star a fronte di quello che si prova entrando in un paese sconosciuto, coll’immaginazione preparata a veder cose nuove e mirabili, con mille ricordi di fantastiche letture nel capo, senza pensieri, senza cure! Inoltrarsi in quel paese, spaziar collo sguardo, avidamente, da ogni parte, in cerca di qualche cosa che vi faccia capire, quando non lo sapeste, che ci siete!», esclama Edmondo de Amicis, un grande viaggiatore.

Stava andando a Barcellona e poco prima della stazione ebbe una specie di capogiro, oggi diremmo un attacco della sindrome di Stendhal, davanti al panorama della città. “Infine, s’abbraccia con un colpo d’occhio Barcellona intera, il porto, il mare, una corona di colli, e ogni cosa si mostra e sparisce in un punto, e voi rimanete sotto la tettoia della stazione col sangue sossopra e la testa confusa”.

Barcellona gli sembrò “la città meno spagnuola della Spagna”. Aveva passeggiato su una strada larghissima e diritta, chiamata la Rambla. Aveva ammirato il gotico della cattedrale di Barcellona, una chiesa oscura e misteriosa. Aveva sostato nella cappella sotterranea, sempre illuminata, davanti alla tomba della bellissima Sant’Eulalia. Alla volta della cappella era sospesa una galera in miniatura, una copia perfetta di quella su cui Don Giovanni d’Austria aveva combattuto contro i Turchi.

Molti anni dopo Evelyn Waugh era arrivato a Barcellona con uno scopo ben chiaro: vedere tutti i Gaudì della città. Aveva anche, contrariamente alle sue abitudini, fatto delle foto di quegli edifici metamorfici, in cui le finestre sembravano grotte, una diversa dall’altra come i fantasiosi zoccoli dei camini. Ma quel che lo sorprese di più furono le morbide contorsioni del ferro battuto delle architetture di Gaudì.

Devoto alla trasgressione, Jean Genet prediligeva il Parallelo, un vasto viale parallelo alle più famose Ramblas. Fra quelle due strade, larghe come fiumi, una rete di vicoli sporchi e stretti, il Barrio Chino, nascondeva la malavita del posto.

La prima cosa che Hans Christian Andersen vide entrando nella cattedrale di Westminster fu la tomba di Shakespeare. Emozionatissimo, posò la fronte sul marmo freddo. Più in là, tra i ritratti marmorei di re e potenti ce ne fu uno che lo costrinse a fermarsi. Era incredibile la sua rassomiglianza con lui, tanto che dei visitatori, stupiti, lo guardarono a lungo, convinti di trovarsi davanti al modello di quella statua.

Per ottenere che la lasciassero andare a Parigi da sola a sedici anni, Marina Cvetaeva aveva minacciato di suicidarsi. Appena scese dal treno cominciò a cercare quello per cui era venuta: i segni del passaggio di Napoleone, il suo eroe. Sospirò all’Arco di Trionfò, rese omaggio a Joséphine de Beauharnais alla Malmaison e visitò non solo tutte le statue dell’imperatore, ma anche quelle dei suoi generali.

Stefan Zweig amava Hyde Park anche se, ammetteva, non lo si poteva definire bello nel senso corrente del termine. Infatti era piatto e povero come una landa inglese. “La sua non è una di quelle bellezze che si impongono, ma una di quelle che si sentono”. Dove trovare quei prati senza fine dove l’erba sembra riposarsi? Quelle greggi di pecore intente da brucare pacificamente, il silenzio e la rarità dei passanti gli davano la sensazione di trovarsi altrove, sotto il cielo inglese che come un vetro smerigliato attenuava la luminosità del sole. “Hyde Park è una pianura nel cuore di una città.”

Si può fare il ritratto di una città come si fa il ritratto di una donna, sosteneva Paul Morand che si trovava bene solo in viaggio. Da giovane aveva vissuto tre mesi in una casa davanti a Hyde Park. Ma preferiva esplorare i bassifondi di Londra la notte, per farle svelare i suoi misteri. Aveva esplorato i segreti di Soho, ma sapeva che “la vera Londra è quella porticina dipinta di bianco o di verde, come la promessa di una felicità segreta” delle case neoclassiche in pietra di Portland.

Siegfried Krakauer era rimasto colpito dalla regolarità delle vie di Berlino. Tra un tronco e l’altro delle due file d’alberi che spesso ornavano le strade c’era sempre la stessa distanza. La grandezza dei marciapiedi spingeva i passanti a passare rasente i muri. “I bovindi delle case sono stanchi di contemplarsi all’infinito”.

Alle sale del Louvre, Wilde preferiva quelle fastose di grandi caffè parigini, come il Café de la Paix o il Café d’Orsay dove, seduto davanti a un tavolino di marmo poteva osservare i volti dei passanti. Non si perse però lo spettacolo delle Folies-Bergères. A Parigi Wilde era una celebrità, anzi, come dice spesso, era celebre come la Tour Eiffel.

Occupante riluttante, felice di scambiare la divisa tedesca con l'abito borghese, Ernst Junger percorse accuratamente la capitale francese negli anni dell’occupazione nazista. Aveva esplorato il Musée de l’Homme in cui vedeva “la compenetrazione, riuscita al massimo tra razionalità spirituale ed essenza magica”. Gli era dispiaciuto il cattivo stato degli affreschi di Delacroix alla chiesa di Saint-Sulpice, aveva ammirato la grazia dell’organo di Maria Antonietta che era stato usato anche da Mozart.

Parigi bisogna conoscerla a fondo perché, come ha detto Sacha Guitry, “essere parigini non è essere nati a Parigi, ma rinascervi”. Tutto a Parigi è uno spettacolo, perfino le immense fognature che costituiscono una città sotto la città. Ogni strada ha una fogna che non solo porta il suo nome, ma riproduce accuratamente i numeri degli edifici. Le pareti di “pierre de taille” chiara, un tipo di calcare quasi bianco, sono pulitissime. Quando nel 1860 Nadar, il più celebre fotografo dell’Ottocento, vi era sceso per immortalarle, la luce spiovente, dai tombini rischiarava appena le volte delle gallerie segnate dalle rotaie. I viaggiatori, su un vagoncino, stringevano le lanterne, illuminando lo stretto canale. Quattro operai, ai due lati dei convoglio, spingevano senza sosta.

Nei vari snodi il veicolo veniva salutato da squilli di tromba, provenienti da suonatori invisibili. Il frastuono del traffico in superficie sovrastava sordamente lo stridore della marcia nell’ombra. I fognaioli lavoravano in silenzio, vicino alle luride cascate che scolavano dall'alto. Eppure, grazie all’efficace ventilazione, nessun odore disturbava le narici degli esploratori. “Se l’occhio potesse penetrarne la superficie, Parigi presenterebbe l’aspetto di una colossale madrepora... Senza parlare delle catacombe, che sono un sotterraneo a parte, né dell’inestricabile intreccio delle condotte del gas... le fognature formano di per sé un prodigioso dedalo tenebroso sotto le due rive”, scriveva Victor Hugo nei Miserabili.

“Per essere una sorpresa, lo fu” ammetteva Céline negli anni Venti, contemplando il panorama di New-York. In Europa le metropoli erano sdraiate, mentre quella, senza il minimo dubbio, stava in piedi. Bastava sollevare la testa per farsi venire una sorta di vertigini rovesciate, alla vista di quelle migliaia di finestre identiche aperte nella muraglia di case. Sotto una pioggia incessante era sbucato a Manhattan, il quartiere più ricco, in cui si sentivano frusciare i dollari ovunque. “Qualcuno sputa per terra passando. Bisogna essere audaci per farlo”.

Stefan Zweig, nel 1935, era stato abbagliato dall'”inverosimile magnificenza” notturna delle facciate dei grattacieli, illuminati da una luce bianca. Un velo di luce l’avvolgeva nella notte generando un'incredibile fosforescenza.

“New York è un giardino di pietra”, osservò Cocteau nel 1936. I grattacieli sembravano possedere la lieve rigidezza delle tende di tulle. La bellezza che emanava da quella modernità svettante aveva una segreta parentela con quella delle piramidi e dell’Acropoli. I vapori del riscaldamento, che salivano verso i piani pió elevati, sembravano uscire dai turiboli di un culto sotterraneo.

“Io amo new-york nei giorni lavorativi, nei giorni feriali d’autunno” proclamava, nel 1925, Vladimir Majakovskij. Il poeta amava la smisurata lunghezza delle case e i riflessi policromi dei semafori sull’asfalto lucidato dalla pioggia. Gli piacevano le folle di lavoratori che invadevano le strade, spartendole con le migliaia d’automobili colorate. Mentre la nave s’avvicinava al porto, André Breton e la sua famiglia avevano visto avvicinarsi delle immagini tante volte riprodotte, la Statua della Libertà, i docks e i grattacieli. Guardando i bagliori notturni dalla finestra della sua nuova casa, la moglie di Breton aveva commentato: “L’America è veramente l’albero di Natale del mondo”.

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