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L’«accordo sporco» e il rischio incertezza

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il caso grecia

L’«accordo sporco» e il rischio incertezza

Il governo greco ha cercato ieri di interrompere la spirale di pessimismo facendo credere di essere vicino all’accordo con i creditori. Questi ultimi danno però segnali di tutt’altro genere: «I conti non tornano, siamo in grande ritardo, ma si sta cercando lo stesso di creare un sistema di aiuti condizionati». Si sa che nessuno vuole una rottura. Si sa anche che si tratterà di un accordo di quattro mesi che dovrà condurre in autunno al terzo programma di assistenza. Ma non si sa come evitare che il salvataggio di Atene si traduca in un prestito a fondo perduto che metta l’economia greca su un sentiero fiscale non sostenibile e che renda così ancor più oneroso il terzo programma di aiuti con costi stimati in 35 miliardi a carico dei contribuenti dell’euro-area. Una proposta dei negoziatori più intransigenti risponde alla logica di un rapporto ormai povero di fiducia reciproca e considera di non chiudere l’accordo, ma di tenerlo aperto per altre settimane, forse mesi, prestando ad Atene gli 11 miliardi già disponibili non tutti in un colpo, ma goccia a goccia, in modo da tenere sulla corda il governo greco e verificarne il rispetto del piano di riforme. Di fatto rischia di essere l’ennesima danza macabra che prolungherebbe pericolosamente l’incertezza sulle sorti greche.

Nonostante un clima tanto deteriorato, la parte più ideologica dello scontro - ma forse anche quella più stimolante - è stata accantonata. Finora Atene aveva impostato il negoziato con i creditori attorno a una delle questioni di teoria economica più dibattute degli ultimi venti anni: tagliare la spesa pubblica può davvero avere effetti di stimolo sulla crescita, quegli effetti che si definiscono “non-keynesiani”? Il ministro delle Finanze Varoufakis lo contestava e quindi rifiutava il disegno di medio periodo di stabilizzazione dell’economia greca. Nelle trattative, così come le descrivono i partecipanti, si prefigurava un debito greco in salita quest’anno sopra il 180% del Pil e poi in discesa sotto il 140% nel 2020. Questa discesa sarebbe avvenuta per tre quinti attraverso surplus primari di bilancio e per due quinti attraverso la crescita del Pil. Il governo greco, ben memore del disastro tra il 2010 e il 2013, contestava che la crescita potesse esserci se la politica di bilancio fosse stata così restrittiva.

I creditori ribattevano che la spesa pubblica greca era in gran parte improduttiva e che Atene intendeva usarla solo per comperare consenso politico. D’altronde anche in Grecia, come in altri Paesi, tagliando la spesa gli ultimi governi avevano forse riportato in crescita l’economia, ma avevano certamente perso le elezioni.

La disputa è stata temporaneamente accantonata perché gli obiettivi di surplus primario per i primi anni sono stati dimezzati su iniziativa delle istituzioni europee. In cambio i greci dovevano finalmente entrare nel dettaglio delle riforme del mercato del lavoro e del sistema pensionistico. Rimane forte la resistenza del Fondo monetario il cui mandato è vincolato alla sostenibilità del debito e quindi al profilo degli avanzi di bilancio del Paese assistito. Il Fondo «non entrerà in un accordo che non abbia senso» dice uno dei negoziatori. Così la trattativa si sta sviluppando in parallelo tra la Troika e l’Eurogruppo (i ministri finanziari) e si è concentrata sull’obiettivo di rendere le riforme così convincenti da aumentarne l’effetto sul Pil, compensando il minor rigore fiscale ai fini della riduzione del debito. Si è capito presto che si trattava di un obiettivo velleitario. Le riforme sono diventate presto proposte di aggravi fiscali con un effetto sulla crescita che è contrario a quello desiderato. In privato i negoziatori europei sono molto delusi. I progressi sono lenti, i dettagli vaghi e l’impianto precario. Sarà un successo se si farà finta che il documento paghi tributo sia all’impianto ideologico europeo sia alla logica dell’impegno costruttivo da parte del Paese che chiede aiuto. Si tratta infatti prima di tutto di superare l’incertezza che sta uccidendo l’economia greca, in un clima in cui prima di ogni week-end circolano voci di introduzione dei controlli sui movimenti di capitale. In particolare dopo che l’annuncio di Varoufakis di una tassa sui movimenti bancari ha fatto triplicare i prelievi. Alexis Tsipras è però fiducioso e ha deciso di farsi carico di persona della trattativa, precedendo il G-7 di Dresda con una nuova lista di 20 pagine di misure e riforme.

Solo con il via libera dei capi di governo, l’Eurogruppo potrà approvare la messa a disposizione di Atene di 11 miliardi già stanziati per il fondo greco di stabilità finanziaria e immediatamente attivabili. È l'ipotesi dell’”accordo sporco”, utile a superare un braccio di ferro autodistruttivo, ma naturalmente non a risolvere la crisi greca. Inutile dire che è un accordo che non piace a Berlino. Il partito della cancelliera (Cdu) è in movimento anche perché l’utilizzo dei fondi richiederà l'approvazione del Bundestag. I manovratori del partito sono abbastanza certi che Merkel - pur in una fase di insolita debolezza - riuscirà a ottenere ancora il voto della maggioranza, ma non è un caso che proprio negli ambienti della Cdu-Csu sia stata avanzata la proposta di trasferire gli aiuti ad Atene goccia a goccia, in modo da tenere sulla corda Tsipras e verificarne le decisioni in Parlamento anche in futuro.

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