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Università, cresce il divario nord-sud

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il rapporto almalaurea

Università, cresce il divario nord-sud

Un Paese immobile dal punto di vista sociale e mobile, ma solo in chiave negativa, sul piano geografico, con un esodo continuo di competenze dal Sud al Nord e dall’Italia all’estero. Se un quadro come questo riguarda i giovani, è inevitabile che il fenomeno sia destinato ad approfondire i propri effetti nel tempo, e proprio questo è l’aspetto più preoccupante dei rapporti di AlmaLaurea sul profilo dei laureati e sul loro successo occupazionale, presentati ieri dall’Università di Milano Bicocca.

Il punto di partenza è noto: in Italia solo tre diciannovenni su dieci si immatricolano all’università, con il risultato che si allarga la distanza fra il nostro Paese, dove solo il 22% delle persone fra 25 e 34 anni ha una laurea in tasca, e il resto d’Europa, dove lo stesso dato sale al 37%. Nella “nicchia” dei laureati, è l’accoppiata fra immobilità sociale e parziale mobilità geografica a produrre gli effetti peggiori, generando quella che AlmaLaurea definisce una «polarizzazione crescente» con una vittima designata: «gli studenti più capaci ma meno mobili, e residenti nei contesti favoriti», alle prese con il «peggioramento progressivo della qualità dei servizi didattici e del contesto educativo». In altre parole, a perdere chance sono i giovani del Sud che avrebbero talento e competenze per eccellere, ma non hanno alle spalle una famiglia in grado di finanziare gli studi dei figli lontano da casa.

Quello che emerge dalle tabelle elaborate dal AlmaLaurea, che dopo l’adesione di gran parte delle università milanesi segue ormai la vita di quasi tutti gli studenti italiani (il consorzio abbraccia 72 atenei da cui esce il 91% dei laureati), è un rigido doppio binario, che si riflette anche sul successo nel mondo del lavoro. Tra 2006 e 2014 la quota di laureati occupati è scesa del 10% fra i figli di famiglie più svantaggiate, e solo del 3% quando almeno un genitore è laureato, e anche se si resta nel campo degli occupati si incontra una dinamica simile nelle retribuzioni: la flessione (in questo caso gli anni considerati sono il 2008-2014) sono scese del 20% in termini reali quando in famiglia non ci sono altri titoli di studio, e del 13% tra i figli di almeno un laureato.

In questo senso, il mondo del lavoro non fa che riflettere la realtà universitaria, in cui si incontra un elevatissimo tasso di fedeltà fra le scelte dei padri e quelle dei figli, soprattutto maschi: su 100 padri laureati in giurisprudenza, calcola AlmaLaurea, l’82% dei figli maschi ha scelto la stessa facoltà, il 69% dei padri laureati in farmacia ha un figlio con lo stesso titolo, e questi tassi sono al 53% fra i medici e al 50% fra gli architetti. Se si aggiunge che la tendenza a proseguire la formazione anche dopo la laurea, rafforzando il proprio curriculum con esperienze più specialistiche, cresce insieme al livello sociale della famiglia d’origine si arriva alla regola enunciata dal rapporto: «All’aumentare dello status sociale aumenta la probabilità di lavorare».

Di un fenomeno così articolato è impossibile trovare una causa unica, fra un sistema universitario sottofinanziato (la spesa pubblica e privata per laureato è superiore a quella italiana del 71% in Spagna e Francia, e del 101% in Germania) e un mondo delle imprese più frammentato, con il 66% di imprese a gestione famigliare in Italia contro il 36% della Spagna e il 28% della Germania, e quindi meno propenso ad assorbire i profili più elevati. La domanda di competenze, spiega però Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, c’è e va intercettata, ma per farlo le università devono mettersi in competizione fra loro sul piano dell’innovazione dell’offerta formativa. Una “competizione” che in parte è già stata avviata nel finanziamento, con l’aumento delle quote distribuite in base ai costi standard e ai risultati di didattica e ricerca (si veda anche Il Sole 24 Ore di ieri). Nella valutazione, però, finora si è stati più attenti a parametri “interni” che all’output, a partire dai risultati occupazionali dei propri studenti. «Questi dati - assicura però Stefano Fantoni, presidente dell’agenzia nazionale di Valutazione - saranno al centro delle verifiche, perché la valutazione deve essere sia interna sia esterna». Il nodo, sintetizza però il presidente della Crui Stefano Paleari, è «riportare studenti e università al centro dell’attenzione, come accade nei principali Paesi del mondo»: anche per evitare che la politica, in cerca di voci di spesa da tagliare, guardi ancora all’università.