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I quattro malanni della scuola italiana

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il dibattito sulla riforma

I quattro malanni della scuola italiana

Mai lasciare che una crisi vada sprecata. Forse Matteo Renzi aveva in mente l’antica arguzia di Winston Churchill quando ha deciso di sfidare tutti – insegnanti, studenti, sindacati, opposizioni interne ed esterne – sulla “buona scuola”. E aveva anche la potente leva di centomila assunzioni nel precariato per disarticolare il fronte dell’opposizione “radicale”. Eppure sembra proprio che la crisi andrà sprecata, perché non è riuscito a far discutere il Paese di ciò che davvero conta, a prospettare per la scuola un progetto culturale coerente e su quello costruire il consenso. 

A sua discolpa va rilevato che sono bastati timidi accenni a valutazione, scelta, premi per il merito, a scatenare la reazione difensiva del mondo della scuola, che ha trasformato in draghi da abbattere quelli che erano, al più, dei topolini timorosi. E va anche detto che valutazione, scelta, merito, sono ingredienti ineludibili di qualunque intervento serio nel campo dell’istruzione. Ma da parte del Governo è mancata la capacità di articolarli in proposte efficaci e praticabili, che potessero davvero aggredire i malanni della scuola italiana.

Sono questi che vogliamo schematicamente elencare, piuttosto che aggiungere la nostra voce a quella di chi, su queste colonne, ha già rilevato la poca incisività del disegno di legge, nella (tenue) speranza che ciò possa ancora servire a orientare in una direzione più costruttiva il dibattito. Ne considereremo quattro, che ci sembrano i principali.

1. Il primo è la struttura della scuola dell'obbligo. La successione delle riforme l’ha lasciata in mezzo al guado: dura dieci anni, ma non riflette un progetto formativo unitario e coerente. Dopo i cinque anni delle elementari ci sono tre anni di una scuola media deresponsabilizzata dall’idea che i suoi insegnamenti verranno comunque ripresi nella secondaria superiore, e i primi due anni della secondaria superiore, incerti tra il compito di colmare le lacune della media e quello di preparare i ragazzi al triennio conclusivo. Manca un disegno unitario, sia sul piano dei contenuti sia su quello delle responsabilità, manca l’indicazione chiara di quali siano gli obiettivi formativi del percorso, considerato nella sua interezza.

La conclusione è che i 5 anni dopo le elementari sono in larga misura sprecati. Tant’è che nei test di confronto internazionale fatti al quarto anno di scolarità, l’Italia è significativamente sopra la media dei paesi considerati (IEA; si veda il rapporto del 2011); in quelli fatti ai ragazzi di 15 anni, alla fine della scuola dell’obbligo, l’Italia precipita molto al di sotto della media (OCSE-PISA 2012). Abbiamo bisogno, dopo le elementari, di un secondo ciclo quinquennale, unitario nel disegno, che rifletta un’identità culturale condivisa, con un punto di arrivo preciso per tutti, anche se magari seguendo percorsi flessibili e personalizzabili, che si concluda con esami nazionali, valutati in modo omogeneo sul territorio.

2. Il secondo malanno riguarda la formazione tecnica e professionale. Viviamo in un’epoca in cui la concorrenza sui costi dei paesi emergenti e l’evoluzione dei bisogni spingono le attività manuali verso una maggiore complessità intellettuale. Molti paesi avanzati, dove  la formazione delle professioni non intellettuali ha un rango accademico, e un riconoscimento sociale, analogo a quello dell’università, sono attrezzati per rispondere a questa sfida: in Svizzera ci sono scuole alberghiere che attirano studenti da tutto il mondo, in Germania i tecnici specializzati che diventeranno la punta di diamante dell’innovazione di processo nella manifattura studiano nelle Berufschule, la Spagna forma i grandi chef.

In Italia, invece, la formazione tecnico-professionale a livello terziario è quasi inesistente: ce l’ha solo lo 0,3% dei giovani tra 30 e 35 anni, contro l’8,6% a livello europeo (Cedefop Reference series 97); i corsi attivati nel 2014 dai circa 70 Istituti Tecnici Superiori del Paese sono frequentati da appena 1300 studenti in totale. Inoltre, gli istituti tecnici e professionali della secondaria – che pure riguardano il 60% di tutta la scuole superiore –sono relegati nella serie C dell'istruzione; il differenziale di reddito di un diplomato alle scuole professionali rispetto a un non-diplomato è in Italia del 13,6%, contro il 17,4% europeo e il 29,7% tedesco (Cedefop).

Le proposte della “buona scuola” – 200 ore di alternanza scuola lavoro nell’ultimo triennio dei licei, 400 ore negli istituti tecnici – segnalano forse la consapevolezza del problema, ma certo non ne sono all’altezza. L’Europa (e in particolare la Germania) è peraltro all’avanguardia nel ripensare l’istruzione professionale (per esempio, nell'uniformare i contenuti dei crediti formativi, per consentirne la validità su tutto il territorio dell'Unione, nel definire uno strumento di assicurazione della qualità). Dovremmo avere il coraggio di ancorarci esplicitamente a queste valutazioni “competitive” per misurarci e migliorarci.

3. Il terzo malanno riguarda la selezione e l’incentivazione degli insegnanti. La migliore ricerca empirica è ormai concorde nello stabilire un collegamento stretto tra la qualità dell’insegnante e l'apprendimento dello studente. Come un paese seleziona i propri insegnanti, quanto li retribuisce e come ne incentiva l’attività, sono fattori cruciali nel determinare i risultati della scuola. E dal momento che anche gli insegnanti sono un prodotto del sistema scolastico, c'è il rischio di innescare un circolo vizioso: studenti impreparati diventeranno insegnanti che producono studenti impreparati. Sembra proprio che questa sia la situazione dell'Italia: un recente studio (Hanushek et al, 2014) trova che le competenze numeriche e letterarie degli insegnanti italiani sono le più basse fra i 23 Paesi OCSE esaminati; ciò riflette non solo le minori competenze dei laureati italiani in genere, ma anche il fatto che l’Italia sceglie prevalentemente gli insegnanti tra i suoi laureati meno preparati (si vedano i grafici a fianco). Lo fa, naturalmente, pagandoli poco: tra il 60 e il 70 per cento della retribuzione media di un laureato, mentre nella media OCSE il rapporto è prossimo al 90 per cento, è il 140 per cento in Corea, il 130 in Spagna (OECD, Education at Glance).

È chiaro che qualcosa non funziona nei meccanismi che determinano la selezione e la retribuzione degli insegnanti. Le proposte contenute nella “buona scuola” – una maggiore (limitatissima) discrezionalità nelle “chiamate”, una maggiore (limitatissima) possibilità di premiare il merito – sono una risposta troppo debole e disorganica. Bisogna  ripensare la struttura della carriera degli insegnanti, con passaggi di livello che riflettano gradi diversi di maturità professionale ed efficacia educativa (come per i docenti universitari): passaggi non automatici, legati al merito e ai risultati, non all’anzianità, per offrire quelle prospettive di avanzamento che costituiscono l'incentivo principale a far bene per chiunque lavora. E questo è preferibile a premi episodici (come quelli previsti dalla "buona scuola"), perché è l'accumularsi di risultati nel tempo che fornisce gli incentivi migliori e misure affidabili del merito. Inoltre, bisogna ripensare ai meccanismi di selezione, sveltendo le procedure concorsuali, senza peraltro escludere modalità di ingresso nella scuola più snelle, guardando anche alle esperienze internazionali; per esempio, negli Stati Uniti il programma Teach for America, che utilizza per due anni nelle scuole più svantaggiate del Paese i laureati delle sue università più prestigiose, sembra dare ottimi risultati. 

4. Il quarto malanno è l’ostilità profonda (pur se a parole negata) verso una valutazione sistematica dei risultati, basata su misure standardizzate. C'è dietro la preoccupazione di chi, in buona fede, pensa che un fenomeno complesso come l'apprendimento non possa essere "ridotto a un numero", ma trascura il fatto che una misura, anche se imprecisa, può dare indicazioni utili, specialmente nell'effettuare confronti. E c’è la preoccupazione di chi, meno disinteressato, teme di non uscire troppo bene da una valutazione seria. Eppure, come ha scritto nelle sue ultime Considerazioni finali il Governatore Visco, “…per indirizzare le risorse dove sono più necessarie non si può prescindere da una valutazione sistematica e approfondita dei servizi offerti e delle conoscenze acquisite.” Magari per spostare le risorse proprio verso le scuole che hanno maggiori difficoltà. È certamente vero che i test standardizzati hanno dei limiti (primo tra tutti, la possibilità che l’insegnamento sia orientato a passare il test, piuttosto che a formare le conoscenze che il test dovrebbe misurare), ma l’impegno deve essere a migliorarli. E a integrarli in un sistema informativo che consenta, per ciascun livello di insegnamento, la valutazione anche in base ai risultati che lo studente ottiene al livello successivo (per finire con l’università, dove la didattica andrebbe valutata anche sulla base del placement nel mondo del lavoro). Questo è in fondo ciò che fanno le famiglie da sempre.

Identificare i problemi, come abbiamo tentato di fare, crediamo sia utile; ma certo non basta a definire il progetto culturale di una scuola che sia davvero buona. È anzi probabilmente velleitario pensare di poter ridisegnare a tavolino, dall’inizio alla fine, il sistema scolastico italiano. Nella scuola, come in ogni settore con processi complessi, il progresso è fatto di sperimentazioni e continua ricerca di miglioramenti al margine; anche per minimizzare le resistente di chi viene sballottato da ogni nuova “grande riforma”. Sarebbe quindi saggio dare maggior spazio alle sperimentazioni, prendendo spunto per esempio dalle Charter Schools americane e dalle Academy Schools inglesi, per  mettere a punto, su piccola scala, dei progetti concreti di cambiamento; da far crescere solo quando, e se, l’esperienza empirica abbia dimostrato che producono risultati migliori.

*Università di Palermo e Einaudi Institute for Economics and Finance

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