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Salvaguardia del Patrimonio archeologico mondiale

Quella «Civiltà Ground Zero» predicata dai nuovi barbari vestiti di nero

I nemici dell’arte e del patrimonio archeologico mondiale non sono più solo i predatori ma anche i… distruttori. Un fenomeno, quello delle devastazioni perpetrate dall’Isis nel Vicino Oriente e in Nord-Africa, che è stato al centro di un incontro organizzato giovedì scorso, 18 maggio, presso il nuovo MAIO (Museo dell’Arte In Ostaggio) a Cassina de’ Pecchi, alle porte di Milano, dedicato ai 1.651 tesori culturali trafugati dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale e mai più tornati.

Titolo evocativo della serata “Civiltà Ground Zero”, a voler rimarcare che la stagione delle demolizioni delle opere d’arte da parte dei fondamentalisti islamici è iniziata nell’annus horribilis 2001. A New York cadevano le Torri Gemelle, a Bamiyan si sbriciolavano i colossali Buddha, ‘condannati' dalla prima assurda sentenza iconoclasta dell'era moderna, emessa dai talebani. Ma Civiltà Ground Zero (che è diventato anche un hashtag, in inglese #Groundzerocivilization) vuol dire anche informare e sensibilizzare il pubblico e le istituzioni mondiali, per evitare che le prossime generazioni nascano in un mondo letteralmente azzerato. Senza memoria e senza testimonianze materiali delle civiltà del passato.

Nel corso dell’incontro al MAIO, presentato dai giornalisti Salvatore Giannella (già direttore dell’Europeo e di Airone) e Marco Merola (cronista specializzato in missioni archeologiche: la più recente l’ha portato nel mare del Giappone alla clamorosa scoperta della flotta del Kubilai Khan scomparsa nel 1281), il pubblico è stato portato per mano in un ideale giro del mondo: Afghanistan, Siria, Iraq, Yemen, Tunisia, Egitto, Tunisia, Libia, Mali, oltre a una puntata nel Balcani, per non dimenticare un’altra pagina nerissima per la cultura e il patrimonio dell'umanità. Ovunque ci sia conflitto c’è un’emergenza beni culturali.

Oggi siamo tutti col fiato sospeso attendendo notizie da Palmira, la meravigliosa città romana nel deserto siriano caduta in mano ai nuovi barbari vestiti di nero ma abbiamo ancora negli occhi la distruzione di Hatra, Ninive e Nimrud, in Iraq, il saccheggio dei Musei di Kabul, Bagdad, Mossul. Pezzi di cultura, tracce del glorioso passato dell’umanità svanite nel nulla, per sempre, cancellate dalle picconate dei fondamentalisti.

Nelle foto e nel video mostrati da Giannella e Merola risiedeva il senso della serata. Il filmato, “Syria”, un coinvolgente montaggio realizzato dal regista Matteo Barzini pescando nelle teche Rai (musica originale del maestro Ennio Morricone), raccontava senza mediazioni e voci narranti tutto il dramma della guerra nel paese dell’Eufrate.
Sullo schermo sono scorse immagini di minareti abbattuti, antiche moschee date alle fiamme, la cittadella di Aleppo e il Krak dei Cavalieri bersagliati senza sosta dall'artiglieria di Assad, ricchezza mortificata, beni di inestimabile valore ridotti a macerie fumanti.

Tra le foto, menzione obbligata per il reportage realizzato da Vittorio Giannella nella Libia romana. Scatti d’autore che hanno immortalato Leptis Magna, Sabratha, Cirene e le “altre” in un momento di pace cui, si spera, non seguano scenari di guerra. Durante il conflitto tra le truppe pro-Gheddafi e i ribelli, lo ricordiamo tutti, Leptis Magna fu protetta dalla popolazione che si strinse fisicamente intorno al sito impedendo l’accesso alle due fazioni in lotta che avrebbero invece voluto occuparla per farne una base logistica.
Proprio questo episodio ha dato modo di affrontare un altro tema particolarmente importante, quello dei salvatori dell’arte. Molta gente comune ma anche archeologi e restauratori che si recano nei paesi in guerra per monitorarne e manutenerne i beni culturali. Tanti gli italiani. L’Università di Udine a Ninive, la Sapienza di Roma a Ebla (entrambi i siti sono in Siria), e ancora l’Università capitolina nella regione di Nassiryia, ad Abu Tbeirah (Iraq). Storie di “ordinario” eroismo e di amore per la cultura del mondo.

Nel corso dell’incontro, il primo dei tanti programmati nella cornice del MAIO, non poteva mancare anche una commemorazione di Fabio Maniscalco, il “sottotenente archeologo” napoletano che partecipò negli anni ’90 alle missioni SFOR e ISFOR nei Balcani, con l’esercito italiano. Maniscalco lavorò infaticabilmente per la tutela e il salvataggio dei beni culturali di Bosnia Erzegovina e Kosovo, minacciati dalla guerra e dai furti continui. Nel 2007 fu candidato al Premio Nobel per la Pace. Poi, drammaticamente, morì nel 2008 a causa dell'uranio impoverito, cui era stato esposto, come tanti altri militari italiani, durante le missioni nell’ex Jugoslavia.

Quasi nulla di quel che è stato raccontato al MAIO passa nei Tg o guadagna l’onore delle cronache. Ma l’attenzione del pubblico va tenuta alta, perché non bisogna rassegnarsi alla distruzione del patrimonio dell’umanità «pianificata a tavolino, non frutto di improvvisi attacchi di collera» come diceva Oriana Fallaci nel suo “Lamento per i colossi di Bamiyan”, di cui è stato letto il testo messo a disposizione da Edoardo Perazzi, nipote della grande giornalista.

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