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«Riforme, manifattura, visione europea»

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«Riforme, manifattura, visione europea»

«C’è un vuoto preoccupante fra i tavoli di crisi e le misure straordinarie per convincere le multinazionali a investire nel nostro Paese. Penso a Carinaro, dove si sta facendo di tutto perché Whirlpool non chiuda lo stabilimento. E penso a Sant’Agata Bolognese, dove sono stati concessi incentivi pubblici specifici perché la Lamborghini vi orientasse la produzione del Suv. Tutto questo va benissimo. Ne siamo felici. Attenzione, però. Perché, fra questi due estremi, in mezzo, c’è il deserto.

Può, un Paese, non avere una politica industriale e una politica di attrazione degli investimenti che siano organiche e strutturate, non emergenziali ed episodiche? No, non può». Antonio D’Amato, presidente della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro, introduce così – con educata schiettezza – uno dei temi principali che saranno sul tappeto del convegno annuale che, con il titolo “Impresa@Italia. Rimettere al centro l’impresa per fare rinascere l’Italia”, si terrà domani all’Università Cattolica di Milano.

Presidente, la ripresa non è sistemica. Quale ruolo potrebbero svolgere le policy, affinché questi flebili segnali non rimangano qualcosa di estemporaneo e siano invece in grado di alimentare la vitalità dell’intero sistema produttivo?

Abbiamo bisogno di riforme serie ed efficaci per ridare competitività al sistema delle imprese, per recuperare quote di mercato nell’interscambio globale e rimettere in moto gli investimenti, i soli a poter creare vera e buona occupazione. Il gap di competitività che da decenni pesa come un macigno sul sistema industriale italiano non è più sostenibile. E sarebbe davvero assai grave non cogliere l’opportunità di questa mini-ripresa che si intravede dopo una crisi così lunga, grave e strutturale che ha colpito tutto il mondo occidentale. L’Italia è diventata uno dei più importanti paesi manifatturieri al mondo grazie al sacrificio di due generazioni di imprenditori che dalle macerie della seconda guerra mondiale hanno costruito un Paese che ha sfidato con successo i mercati. La durissima crisi di questi anni ha fortemente decimato il nostro sistema produttivo. È vero che la sua parte più qualificata ed internazionalizzata è riuscita a rimanere sui mercati. E con più di qualche successo. Ma non basta. La globalizzazione impone oggi un deciso salto di dimensioni. I piccoli devono poter diventare medi, le medie imprese devono diventare grandi. Se fino a ieri la dimensione di riferimento minima era l’Europa, oggi, e già da qualche anno, è il mondo.

Il Governo Renzi, fin dai primi giorni, ha puntato non poco sulle riforme di sistema.

Sì, e questa è stata la ragione iniziale del suo consenso in Italia e del successo all’estero. Sin dai primi passi il governo Renzi ha suscitato tante speranze e molte aspettative, basate sull’impulso al cambiamento e sull’energia di discontinuità e di rottura. Il consenso al primo Renzi si nutriva del credito assegnato alla sua spinta innovativa e alla sua capacità di realizzare rapidamente le riforme di sistema. Renzi si è proposto come il primo leader politico post-ideologico: una figura che si poneva al di là della contrapposizione fra destra e sinistra, da valutare sul terreno dei fatti concreti. Purtroppo, questa forza si è poco alla volta affievolita.

La riforma del mercato del lavoro è stata compiuta.

Sì, anche se va ultimata. Renzi ha portato avanti un ulteriore capitolo della riforma Biagi avviata circa quindici anni fa. E ha fatto bene. Male hanno fatto quanti, fino ad oggi, sono rimasti fermi, mettendo la testa nella sabbia e rifiutandosi di rendere il mercato del lavoro meno rigido, più equo e più adeguato alle esigenze delle imprese e dei lavoratori. Certo, restano ancora altri importanti nodi da sciogliere. Restano tutte le contraddizioni dei rapporti di lavoro pre Jobs Act. E, allo stesso tempo va affrontata la disparità che esiste fra dipendenti privati e dipendenti pubblici.

L’azione di Governo si è dispiegata anche su altri capitoli.

Vero, dopo una partenza molto dinamica, il governo sembra che abbia perso la sua spinta iniziale e procede ora in maniera incerta e non sufficientemente incisiva. Mentre sulla riforma del mercato del lavoro c’era una strada già tracciata e bisognava soprattutto trovare il coraggio di percorrerla, sulle altre riforme mi pare non ci siano idee sufficientemente chiare e proposte adeguatamente incisive. Di qui, forse, la mancanza di determinazione e lo stallo che stiamo vivendo su nodi fondamentali come la giustizia, il fisco, la burocrazia, l’elefantiasi dei costi e dell’apparato pubblico. Per non parlare del caso di questi giorni, la riforma della scuola e dell’education. È un problema di sostanza oltre che di metodo. C’è solo una cosa peggiore del dire di voler cambiare senza farlo: cambiare tanto per cambiare. Gli italiani vogliono riforme vere, ne hanno bisogno e lo hanno chiaramente espresso. Il paese reale è migliore delle tecnostrutture, della burocrazia e delle corporazioni che lo soffocano.

Il convegno annuale di domani non sarà contraddistinto solo da una impostazione nazionale, ma avrà anche una cifra internazionale. Fra politica ed economia, l’Italia rischia di avere una posizione paradossalmente contraddittoria rispetto all’Europa: la seconda manifattura continentale, che però non sempre riesce ad avere nella rappresentanza politica la forza e il potere che le spetterebbero per il suo peso economico.

L’Italia è un grande Paese fondatore dell’Europa. E lo è non solo per aver partecipato alla fase costituente dell’Unione Europea ma soprattutto perché il contributo che abbiamo dato con la nostra storia, la nostra tradizione e il nostro patrimonio culturale, all’idea e all’essenza stessa dell’Europa, è stato fondamentale. Dobbiamo quindi saper svolgere un ruolo da protagonisti nella costruzione di un’Europa più unita sul piano politico, più forte nelle sue istituzioni e più competitiva sul piano economico. E per farlo, abbiamo bisogno di recuperare autorevolezza e credibilità. Questo si ottiene solo andando avanti decisi sulla strada del cambiamento e delle riforme.

Dunque, la dimensione europea resta fondamentale.

Sì e non solo dal punto di vista economico ma soprattutto dal punto di vista degli equilibri politici e per garantire una prospettiva di pace e di stabilità nel mondo. Le ambizioni imperialiste di Cina e Russia, la rinnovata rincorsa agli armamenti, le guerre di civiltà e religioni che infiammano il Medioriente, l’onda lunga dell’immigrazione, disegnano uno scenario estremamente complesso. Non possiamo lasciare agli Stati Uniti il ruolo di garanti della pace e dell’equilibrio mondiale. Non sanno e non possono neanche svolgerlo da soli. L’Europa ha delle responsabilità che non può continuare ad ignorare. E deve attrezzarsi per essere all’altezza di questo compito. Questa visione e questa consapevolezza sono colpevolmente assenti nelle leadership politiche dei paesi membri e nelle tecnostrutture europee. Fatta salva qualche meritevole eccezione, come quella di Draghi. Non possiamo continuare ad essere solo il più grande e ricco mercato di consumo del mondo. Dobbiamo riconquistare un primato manifatturiero al quale abbiamo ormai abdicato anni fa e dobbiamo, soprattutto, saper diventare una grande realtà politica in un mondo così confuso. Un compito come questo richiede un’Europa davvero unita. Nessuno dei nostri Paesi siederà ad alcun tavolo, neanche a quello del G7, da qui a qualche anno. Solo tutti insieme possiamo essere all’altezza del ruolo che la storia ci impone.