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Ma qual è il vero tallone d'Achille dell'euro?

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DEMOCRAZIA E FINANZA

Ma qual è il vero tallone d'Achille dell'euro?

E se alla fine si scoprisse che è la sostenibilità democratica e non quella finanziaria il vero tallone d'Achille dell'euro?

In sette anni il paradigma della crisi è riuscito a diventare totalizzante, straripando a poco a poco dalle banche al debito sovrano, poi all'economia fino a travolgere anche la politica.

Guardando indietro a mente fredda, appare inverosimile il percorso che ha portato l'Europa, invece che a contenere, a dilatare in modo irresistibile impatto e costi di un problema minore come quello greco: più che decuplicando una fattura iniziale da 30 miliardi e trasformando il ripescaggio di un Paese, difficile ma con Pil e debito pari al 2% e al 3% del totale dell'area, nel salvataggio dell'euro stesso, in condizioni incerte, confuse e anche drammatiche.

Rabbia, astio, disperazione, sfiducia reciproca sono i compagni di strada del referendum che domenica inviterà i greci a dire se sono o no disposti a continuare la terapia rigore-riforme imposta dai creditori internazionali in cambio degli aiuti, dunque se vogliono o no restare nell'euro. Una forsennata guerra psicologica condotta con l'arma impropria delle informazioni manipolate oppone il premier Alexis Tsipras ai suoi partner europei, entrambi ansiosi di convincere il popolo greco a giocare la loro partita.

Tsipras invita con forza a dire no, a difendere la sua causa e la sua poltrona contro l'Europa che ha orchestrato il tracollo dell'economia nazionale: tra il 2008 e il 20014 il Pil è calato del 27%, la spesa pubblica reale di oltre il 30% con taglio di salari e pensioni e di quasi un terzo dei dipendenti pubblici. I disoccupati sono arrivati al 27%, i giovani a più del 50%. La Grecia è l'unico Paese Ocse dove il reddito pro capite è rimasto al palo negli ultimi 8 anni. In compenso il saldo di bilancio strutturale è migliorato di 20 punti nell'ultimo quinquennio e la bilancia corrente di 16. Però il debito è schizzato dal 123% al 177 %, complice la lunga recessione.

Gli europei vorrebbero che i greci perseverassero su questa strada e per convincerli hanno interrotto i negoziati con Tsipras, che chiede la ristrutturazione del debito in cambio dell'impegno rigorista, e ripetono che un no all'austerità equivarrebbe a un sì all'uscita dall'euro.

In realtà tutti giocano con le carte truccate: il greco quando invita il Paese a pronunciarsi su un'offerta di accordo ormai saltata insieme alla proroga degli aiuti, gli europei quando mestano nelle sacre regole minacciando Grexit, che non è contemplata dai Trattati Ue. E che, se si realizzasse, sarebbe un disastro collettivo prima che ellenico. Ovunque, insomma, il panico muto di questa vigilia è un pessimo consigliere.

Non si spiegherebbero altrimenti le ripetute e assolutamente irrituali invasioni, da parte dei maggiori leader europei ma soprattutto della Commissione Ue, nelle dinamiche democratiche di un Paese membro: con conseguenze immediate incerte – quando Angela Merkel si proclamò pubblicamente grande elettore di Nicolas Sarkozy, in Francia vinse François Hollande – e conseguenze future certamente problematiche e forse anche disastrose.

Nell'unione monetaria, decollata senza l'unione politica che ora molti vorrebbero accelerare con un salto di qualità integrativo quale antidoto sicuro a nuove crisi, l'esperienza della Grecia potrebbe diventare nell'inconscio collettivo una discriminante decisiva, il freno a nuove cessioni di sovranità: a questo punto democratiche prima ancora che nazionali.

Tanto più in un'eurozona dove i più forti, che già in passato non hanno esitato a rimuovere governi non abbastanza compiacenti, ora intervengono preventivamente promettendo premi o sanzioni a chi si appresta a votare. Il rischio che, di questo passo, si possa prima o poi creare un corto circuito tra euro e democrazia non è solo teorico.

La moneta unica non è una scelta ma una necessità obbligata nel mondo dell'economia globale. Però il rafforzamento più efficace e intelligente della sua governance, prima che nuove regole, richiederebbe più equilibrio e senso di responsabilità da parte di tutti. Non solo della Grecia.

Quando la Germania ostenta i picchi delle sue virtù transustanziati nel secondo pareggio di bilancio di una serie che durerà fino al 2019 e lo fa proprio nel giorno in cui Atene rotola nella polvere (dei suoi errori e di quelli dei suoi fallibili partner). Quando è dimostrato che le politiche anti-crisi invece di appianare hanno esacerbato divergenze e ineguaglianze dentro l'eurozona dove la disoccupazione varia dal 4,7% tedesco al 27 greco. Quando la crescita permane un motore quasi tutto nazionale e molto poco europeo. Quando nell'eurosud si invoca solidarietà ma nell'euronord la si teme per paura di una, due, mille Grecie a venire. Quando i sondaggi segnalano che ormai la maggioranza dei tedeschi ma anche degli irlandesi auspica Grexit e la selezione darwiniana dei partner. Quando domani la scelta per i greci sarà solo tra due mali e una delle grandi colpe di Tsipras la richiesta di politiche differenti dal pensiero unico dominante, ci si può chiedere quanto l'euro possa resistere alle divisioni che crea al proprio interno, dilaniando i popoli e le democrazie che gli appartengono.

I parametri di Maastricht non basteranno, la moneta unica non durerà senza coesione interna e un vero governo europeo, si ripeteva negli anni in cui la si costruiva. Il trauma greco avverte che imploderà se non saprà riconquistarsi quanto prima fiducia e libero consenso della gente, gli ingredienti base delle democrazie. Se non lo capisce, anche l'Europa, dopo la Grecia, potrebbe finire in default.

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