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Non basta l’economia a risolvere i casi di Atene e Pechino

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Scenari

Non basta l’economia a risolvere i casi di Atene e Pechino

Sul Sole 24 Ore del 9 luglio, Morya Longo sottolineava come il “fattore P”, ovvero le scelte dei decisori politici e, più in generale, le crisi determinate o mal gestite dalla politica, potranno giocare un ruolo decisivo nelle prossime settimane nel consolidare o affossare i timidi segnali di ripresa dell’economia mondiale. Dalla Cina alla Grecia, dal superdollaro alla questione ucraina al terrorismo mediorientale, il “fattore P” potrebbe essere davvero l’elemento critico per la stabilizzazione dei mercati finanziari.

Anche solo guardando ai casi greco e cinese, quelli in cui il rapporto tra “politica” ed “economia” è più evidentemente in gioco, è difficile non constatare come le tensioni siano particolarmente evidenti. Vorrei andare oltre e proporre una riflessione sul problema in termini, se possibile, più drastici e preoccupanti. A mio parere, infatti, ciò che sempre più appare divergere è la relazione tra il sistema politico sociale e il sistema economico. Non mi riferisco qui solo, o principalmente, a ciò che i decisori nei due ambiti (i leader politici e coloro che determinano lo spostamento di ingenti masse di denaro) fanno o non fanno, più o meno saggiamente; quanto piuttosto alle logiche che governano tali decisioni, alla loro capacità di spiegare effettivamente le ragioni e alle conseguenze che ne derivano.

Non c’è dubbio: tanto in Cina quanto in Grecia, la politica ha avuto un effetto determinante nel contribuire a generare le situazioni attuali. Nel caso cinese il lungo e incoerente processo riformatore attuato da Deng e dai suoi successori (siamo alla quarta generazione post-Deng) ha creato un sistema ibrido, una sorta di “Neanderthal” in un mondo di “Sapiens-Sapiens”. Eppure è a questo individuo più “primitivo” che le altre creature più “evolute” economicamente e politicamente hanno affidato le proprie speranze di crescita in tempi di prolungata recessione.

Nel caso greco, alle scelte dell’esecutivo capitanato di Tsipras, peraltro in buona parte vincolate dall’azione di tanti suoi predecessori e dalla pervicace volontà del popolo greco di sopravvivere alle amorevoli cure della troika, si sono sommate quelle derivate dalla decisione dei leader europei di costruire una moneta unica che no fosse (e non è) espressione di una area omogenea né tantomeno ottimale dal punto di vista economico e monetario e, oltretutto, prima e senza che venissero create le strutture istituzionali e politiche necessarie a governarne la progressiva omogeneizzazione.

Si tratta anche nella vicenda della Grecia e dell’euro, beninteso, di una serie di fallimenti politici di cui Atene, Bruxelles, Berlino e Parigi (per limitarci a chi questa partita l’ha davvero giocata) condividono la responsabilità. E però è difficile non osservare quello che più conta: ovvero che l’attrito crescente tra ciò che “il mercato reclama” e quel che la politica riesce a fare non sia interamente colpa della seconda e neppure sia ascrivibile ai diversi “scopi” o ai diversi “valori” in base ai quali sarebbero orientati l’agire economico e quello politico.

Il dubbio, perlomeno il dubbio, che invece sorge è che la strumentazione concettuale della teoria economica possa non essere appropriata a comprendere la realtà economica odierna. Viene sommessamente da chiedersi se l’iperfinanziarizzazione dell’economia contemporanea non ne abbia trasformato l’effettivo funzionamento e la natura reale, così come la progressiva realizzazione di un mercato unico globale non abbia finito per minare l’unica vera giustificazione a sostegno dell’economia capitalista: quella di creare più ricchezza per più persone in maniera più efficiente, così da rendere sopportabile l’inevitabile ineguaglianza che il mercato genera in virtù del miglioramento complessivo delle condizioni di vita che esso produce. Gli economisti (non tutti per la verità) continuano ad offrirci rassicurazioni sul fatto che è la natura ancora imperfetta del mercato e la persistente resistenza di vincoli politici a produrre disfunzionalità anche gravi. Ma è difficile non constatare come molte delle spiegazioni e delle terapie proposte in questi anni siano state controproducenti e persino controfattuali, finendo spesso per generare la morte economica del paziente (il caso greco è solo l’ultimo).

All’inizio del secolo scorso, le scoperte di Einstein sulla relatività rivoluzionarono le leggi della fisica e lo stesso concetto di tempo. Nel campo dell’economia, non si vede niente di lontanamente paragonabile. Anzi, parafrasando Carl Schmitt, sembra di assistere alla trasformazione dell’economia da scienza sociale in una “teologia economica”: con tanto di eresie e abiure e scomuniche, ma con poco che aiuti davvero a evitare i disastri presenti, prossimi e futuri. Insomma, accanto al “fattore P”, inteso come l’impatto degli errori dei politici e dei fenomeni geopolitici sull’economia, forse dovremmo accostare il “fattore E”, inteso come l’impatto sulla vita di miliardi di esseri umani delle decisioni che vengono assunte o giustificate nel nome di una teoria economica obsoleta (né più né meno di quanto lo fosse la fisica prima di Einstein).

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