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Quel «capitale umano» che serve alla crescita

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Scenari

Quel «capitale umano» che serve alla crescita

Le prospettive di crescita di una città e di un territorio dipendono in larga misura dalle persone che vi abitano. I territori che sanno scoprire, formare e trattenere persone di talento, accumulano nel tempo uno stock di capitale umano qualificato che è fondamentale per crescere. Lo stock può essere aumentato attraendo talenti da altri luoghi. Nell’economia globale, città e territori competono tra di loro per attrarre capitale umano e finanziario, nella forma di investimenti. Chi ha successo può beneficiare dell’allargamento dei mercati derivante dalla globalizzazione. Chi non ci riesce s’impoverisce. Il divario tra territori “vincenti” e “perdenti” tende peraltro ad aumentare nel tempo. Infatti le aree con persone di talento sono più innovative e crescono più rapidamente, il che consente di attirare altro capitale umano e di innescare un circolo virtuoso. Al contrario, chi non è attrattivo rischia di affrontare un declino difficile da invertire.

La situazione politica è spesso la causa della perdita di capitale umano. Nel decennio che precede la seconda guerra mondiale la Germania nazista perde alcuni tra i più grandi scienziati del tempo, in gran parte ebrei, che fuggono soprattutto negli Stati Uniti. Oggi è impressionante il caso dell’Ungheria di Viktor Orbàn dalla quale in pochi anni se ne sono andati in cinquecentomila, in gran parte giovani e di talento, su una popolazione complessiva di circa 10 milioni. Più del doppio dei duecentomila ungheresi che fuggirono a causa dell’invasione sovietica del novembre 1956.

In assenza di gravi motivi politici, da cosa dipende la capacità centripeta o centrifuga di un territorio? Da tanti fattori, ma in larga misura da università e imprese, cioè dalle opportunità di formazione e ricerca e da quelle di lavoro. L’Università ha il duplice ruolo di formare e attrarre talenti. Le imprese possono trattenere e attirare capitale umano creando lavoro e ricchezza. Il mix di Università di Stanford e start-up costituisce un catalizzatore di talento eccezionale per Silicon Valley.

Quanto all’Italia, spesso il nostro paese forma ottimi talenti ma poi li perde. Il trend della “fuga di cervelli” è in aumento: ricercatori, medici, artisti, imprenditori e lavoratori qualificati sono attratti principalmente da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Svizzera. È normale che i talenti perseguano opportunità per crescere professionalmente. Il problema dell’Italia è che questo movimento avviene quasi a senso unico. I “rientri” degli italiani dai paesi di cui sopra sono solo il 40% del flusso in uscita; la capacità di attrazione di talenti nativi di quei paesi è addirittura prossima allo zero. In altre parole, la mobilità intellettuale netta dell’Italia è negativa.

Dalle conversazioni avute nel corso degli anni trascorsi all’estero con tanti talenti italiani emigrati, emergono alcuni dei principali svantaggi dell’Italia: 1) la remunerazione del capitale umano non è sufficiente. L’investimento fatto per conseguire un titolo di studio non produce un ritorno adeguato sul mercato del lavoro. Anche da un punto di vista qualitativo è difficile trovare un’occupazione consona al percorso formativo svolto; 2) la burocrazia è eccessiva. Nell’università e nella ricerca, ma anche nell'impresa, leggi e regolamenti sono troppi e troppo complessi; 3) merito e concorrenza non sempre vengono premiati. Si parla molto di meritocrazia ma nepotismo, favoritismi e raccomandazioni sono ancora molto diffusi, nel pubblico e nel privato; 4) le opportunità di carriera sono limitate. I percorsi professionali, spesso prestabiliti, riconoscono molto peso all’anzianità di servizio e raramente premiano la trasversalità.

Solo dando risposte efficaci a questi problemi l’Italia metterà i propri territori in condizione di attrarre talenti e colmare il deficit di capitale umano. Ben più grave di quello della spesa pubblica.

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