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Economia e giustizia: il bilanciamento possibile

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L’INCHIESTA

Economia e giustizia: il bilanciamento possibile

«Chi pensa al peso di dolori umani affidato alla coscienza dei giudici, si domanda come, con un così terribile compito, essi riescano la notte a dormire sonni tranquilli», scriveva Piero Calamandrei più di 50 anni fa, rifiutando, qualche riga oltre, il modello del giudice burocrate, «bocca della legge», che sembra «fatto apposta per togliergli il senso della sua terribile responsabilità e per aiutarlo a dormire senza incubi». La giustizia, sosteneva, è «creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana» e il giudice deve «saper portare con vigile impegno umano il grande peso dell'immane responsabilità che è il rendere giustizia».

Il buon giudice, insomma, è destinato a notti insonni, agitate da incubi. Ancora più in tempi di crisi economica, quando dalla doverosa tutela di diritti fondamentali possono derivare conseguenze pesantissime sull'esercizio d'impresa, sull'occupazione, sui conti pubblici, sul sistema produttivo, al punto da ritorcersi, qualche volta, sugli stessi soggetti che ai giudici hanno chiesto tutela. Purtroppo, nella perdurante inerzia legislativa e inefficienza della pubblica amministrazione - che spesso scaricano sulle toghe ampie fette di politiche economiche, sociali, ambientali, salvo poi accusarle di supplenza e tentare di correre ai ripari quando il danno è fatto - quell'incubo notturno può togliere il respiro. E non dare tregua se la crisi economica perde la connotazione emergenziale e si presenta, di fatto, come strutturale, “giustificando” sempre più deroghe, eccezioni, strappi, che rischiano di soppiantare la regola di diritto.

Incubi e conflitti
Accade, allora, che l'incubo diventi conflitto: istituzionale, politico, sociale. I giudici lo hanno già conosciuto negli anni '60 e '70 con “l'ingresso nelle fabbriche” a tutela della sicurezza e della salute, ma oggi lo stanno rivivendo in un contesto ben più complesso e difficile, che rischia di far saltare gli equilibri di uno Stato democratico di diritto.
L'oggetto del contendere è se, quanto, e come, le “compatibilità economiche” debbano pesare sulle decisioni dei giudici, delle procure della Repubblica, della Corte costituzionale. In ballo ci sono sempre diritti fondamentali, alcuni incomprimibili come quello alla vita e alla salute. Dopo le sentenze “sfonda bilancio” della Consulta a tutela dei diritti sociali, ora è la volta dei provvedimenti cautelari con cui pm e giudici chiudono impianti industriali o fermano cicli produttivi a tutela della salute dei lavoratori e della cittadinanza o dell'ambiente(dall'Ilva a Fincantieri passando per l'Aeroporto di Fiumicino).

La parola magica per uscire dal conflitto sembra essere «bilanciamento»: ma qual è il luogo naturale, primario, del bilanciamento? Si deve bilanciare a monte (sede politica) oppure a valle (sede giudiziaria)? E in questo secondo caso, “come” si può bilanciare?
Interrogativi che i magistrati si stanno ponendo, non solo in chiave difensiva. Il «grande peso» (inevitabile) della loro responsabilità rischia infatti di andare ben oltre l'«immane» se si pretende di trascinarli sul terreno di altri poteri. Che così possono dormire sonni tranquilli e senza incubi...

Dibattito aperto
In questi giorni, giudici e pm sono stati rimproverati di protagonismo, di condizionare la discrezionalità politica, di pregiudizio anti-impresa, di scarsa cultura economica, di mancanza di un'adeguata professionalità nell'affrontare questioni cruciali per la competitività del Paese. Il presidente dell'Anm Rodolfo Sabelli, di rimando, ha puntato l'indice contro il declino della legislazione e l'inadeguatezza della pubblica amministrazione, ricordando che «non può essere l'economia a dettare le regole all'azione giudiziaria, che ha per faro solo e soltanto la Costituzione». Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, però, ha esortato i magistrati «a saper cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie» perché «il loro impatto sull'economia e sulla società non può più essere considerato un tabù».

Per la verità, il tabù è caduto già un anno fa, quando l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano raccomandò alle giovani toghe che entravano in servizio di «prospettarsi le conseguenze dei propri provvedimenti e di misurarne le ricadute» perché questo, spiegò, è un aspetto cruciale della «responsabilità del moderno magistrato che opera in un contesto lacerato da difficoltà economiche e sociali e pervaso da inquietudini, paure e diffidenze crescenti». Parole indirettamente confermate mercoledì scorso, in un'intervista al Sole 24 ore, dal ministro della giustizia Andrea Orlando, secondo cui «gli antidoti» contro il conflitto sulle “compatibilità economiche” sono la «formazione e la specializzazione del magistrato», per «evitare decisioni superficiali»; anche se, ha aggiunto, «non è questo il caso di Monfalcone e di Taranto, dove c'è una consapevolezza dei temi industriali e ambientali di lunga data». «Le compatibilità economiche non sono un'opinione», ha aggiunto Orlando, perché «è la legge a prevedere la proporzionalità delle misure cautelari adottate dal giudice».

Massimo Donini, ex magistrato ora ordinario di diritto penale all'Università di Modena, che nell'attività di avvocato si occupa prevalentemente di diritto penale dell'economia, invita a distinguere il ruolo delle Procure da quello dei giudici. «È giusto che i Pm pongano il tema di un sequestro preventivo, di una possibile confisca, di una misura cautelare, anche se coinvolgono un'impresa importante, ma inquinante. Le conseguenze economiche non sono mai state previste tra i criteri per la scelta delle misure cautelari, almeno non prima dei decreti legge sull'Ilva. Semmai – osserva -, il problema è un altro: se cioè le Procure possano intervenire, o se siano sempre intervenute, “a tutela” di diritti fondamentali che non sono davvero sottoposti a pericoli attuali e certi, quanto a effetti lesivi, o in presenza di effetti ormai consumati e irrecuperabili». In sostanza, se i pericoli sono «incerti in base alle conoscenze scientifiche, una misura cautelare penale è destituita di fondamento; così come lo è la contestazione di fattispecie giganti di avvelenamento in assenza di leggi scientifiche di copertura. E se i pericoli sono ormai “danno consumato”, non è certo forzando le garanzie probatorie che si potrà legittimamente intervenire o recuperare nulla, né in sede di indagini né di sentenza».

Da questa incertezza sul riparto delle responsabilità tra poteri pubblici e privati deriva, secondo Donini, «l'implosione del sistema e il ricorso addirittura a decreti legge per “bilanciare” azioni giudiziarie, tutela della salute e interessi economici dei lavoratori, come l'ultimissimo dl 92/2015».

Diversa, almeno in parte, è la posizione dei giudici, perché, spiega sempre Donini, «i giudici devono essere i castigamatti delle accuse infondate fin da subito, non dopo anni di processi. Tuttavia, essi devono non solo controllare, in posizione di terzietà, le diverse posizioni processuali, ma effettuare anch'essi bilanciamenti. Il che è possibile anche quando applicano le regole, perché le regole vanno rilette attraverso i princìpi e tra questi ci sono sia diritti come la salute di tutti sia diritti come la libera iniziativa economica o la tutela dei lavoratori. Il tempo presente – osserva - è quello del bilanciamento, ma se il legislatore non risolve questioni urgenti di conflitti sociali ed economici non causati ma aggravati dall'operatività della legge penale, la soluzione giudiziaria diventa inevitabile. Perciò la responsabilità primaria, anche a fronte di devianze giudiziarie, a me pare sempre della politica».

«Quando parliamo di bilanciamento dobbiamo intenderci» premette Renato Rordorf, giudice di Cassazione, dove presiede la prima sezione civile, uno dei massimi esperti di diritto commerciale, già componente della Consob e ora presidente della commissione ministeriale per la riforma del diritto fallimentare. «Non porrei il bilanciamento in termini di contrapposizione tra l'utile, come finalità dell'agire economico, e il giusto, come finalità dell'agire giudiziario. Per un magistrato la contrapposizione non può essere posta in questi termini perché egli deve operare nel quadro delle regole date: l'applicazione di quelle regole è la sua funzione ineludibile.

Opzioni interpretative
Detto questo – aggiunge – è evidente che nel quadro delle regole giuridiche (che nessun bilanciamento gli consentirebbe di varcare) c'è una serie di opzioni interpretative o di scelte discrezionali che le regole consentono di effettuare. È all'interno di questo limite di elasticità del quadro normativo che si possono, e si devono, porre anche problemi di bilanciamento tra esigenze diverse». Rordorf è convinto che, nel penale come nel civile, un magistrato debba avere «la capacità di rendersi conto delle conseguenze economiche delle sue decisioni» e ciò perché – spiega - l'applicazione delle regole «non è un'operazione burocratica, meccanica, non si esaurisce in una sorta di liturgia procedimentale, ma richiede la consapevolezza anzitutto delle ragioni – in questo caso economiche – per cui la regola è stata posta nonché degli effetti che una certa applicazione della regola astratta al caso concreto comporta. Ciò, ovviamente, non per disapplicarla ma per interpretarla e applicarla nel modo più ragionevole alle esigenze del caso concreto». Dunque, solo in questo caso «ha senso parlare di compatibilità e di bilanciamenti».

Tutto ciò sta in piedi, però, a due condizioni. La prima è che vi sia un'adeguata formazione professionale e specializzazione del magistrato, «affinché possa svolgere la sua funzione non in modo burocratico ma con la consapevolezza degli effetti delle sue decisioni», altrimenti si crea uno «scollamento» tra la regola e la realtà. La seconda ha invece a che fare con la creazione della regola. «Se si vuole che un magistrato sia in grado di fare bilanciamenti ragionevoli – avverte Rordorf -, occorre che la regola giuridica, soprattutto nel campo dell'economia, abbia un grado di elasticità sufficiente a consentirne un'applicazione equilibrata, considerata l'estrema varietà e mutevolezza della realtà economica cui è destinata».

Regole rigide
Invece, «negli ultimi anni è accaduto il contrario: c'è stata una diffidenza del legislatore verso l'interprete e la tendenza a dettare regole molto dettagliate per ridurre il margine di discrezionalità, e quindi di elasticità interpretativa che compete al giudice. Ciò rende molto difficile, se non impossibile, il bilanciamento di valori e di interessi in fase di applicazione della regola». In sostanza, se la regola è troppo rigida, si finisce per applicarla in modo altrettanto rigido e il bilanciamento diventa impossibile. Il giudice, per tener conto delle esigenze da bilanciare, «dovrebbe solo disapplicare la regola, ma questo non può farlo». Di qui la conclusione: «Un legislatore che diffida troppo della discrezionalità dei giudici chiamati ad applicare le sue leggi rischia di fare cattive leggi».

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