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Le ragioni vere dell'economia reale

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L’INCHIESTA

Le ragioni vere dell'economia reale

È una questione di sopravvivenza. Una crisi economica così profonda e radicale – dagli effetti strutturali maggiori di quella del ‘29 – impone una modernizzazione dei rapporti fra industria e ambiente, diritto ed economia, imprese e magistratura. Ilva e Fincantieri sono i casi più eclatanti. Dal 2008 il sistema industriale italiano ha perso un quarto della sua capacità produttiva.

Il fisco è a livelli insostenibili: secondo l'ultimo rapporto Tax Wage di Oecd, il cuneo fiscale per il lavoratore dipendente single ha raggiunto il 48,2% nel 2014, mezzo punto in più rispetto al 2013 e dodici punti in più della media Oecd. Per l'Istat, quattro milioni e centoduemila connazionali si trovano in condizioni di povertà assoluta. Qualcosa si è rotto nell'anima di molti: lo spiega bene il suicidio di Egidio Maschio, uno degli imprenditori simbolo del Nord-Est e della piccola e media impresa italiana. In queste condizioni, è indispensabile una modernizzazione che salvaguardi la salute e l'ambiente. Ma che, allo stesso tempo, non comprometta la fisiologia industriale degli impianti.

Il profilo del rapporto fra industria e ambiente e la dialettica fra impresa e magistratura è stato ridisegnato dall'ultima misura del Governo sull'Ilva e su Fincantieri. Due casi molto diversi. Il primo, a quasi tre anni di distanza dal suo avvio, rappresenta una delle più complesse vicende giudiziarie e umane (con il suo carico di morti), industriali e finanziarie (con il suo carico di debiti), che si siano mai verificate nella storia italiana. Una vicenda ancora tutta da cogliere nel suo impatto sulla nostra economia reale, soprattutto se ad un certo punto – come sta capitando in queste ore – vi fosse una accelerazione fortissima dello scontro fra magistratura e politica, di cui sono emanazione i commissari governativi di una impresa ormai pubblica. Senza provare a spingere la notte più in là, alcune cose sull'Ilva le sappiamo: nei primi due anni di commissariamento, il capitale netto andato in fumo è stato pari a 2,5 miliardi di euro e i debiti verso le banche hanno superato abbondantemente il miliardo e mezzo di euro; la società è così fuori mercato che in Italia, nei primi cinque mesi dell'anno, nel solo segmento dei prodotti piani le importazioni dai fornitori extra Ue sono aumentate del 44 per cento. A Taranto l'accusa originaria rivolta ai Riva, da cui tutto discende, è quella di disastro ambientale. Invece, a Monfalcone l'intervento iniziale della magistratura riguarda problemi autorizzativi e regolatori, concernenti le aziende che in subappalto si occupano di gestire i materiali ferrosi. In questo caso, non vi è alcuna ipotesi di impatto ambientale o sanitario deleterio. Ci sono soltanto profili amministrativi e autorizzativi. Per i quali – senza l'ultimo decreto del Governo – sarebbe stata certa la paralisi di tutto il sito di Monfalcone, con il congelamento di tre commesse di Fincantieri (due navi per il gruppo Carnival e una per Msc) da 1,8 miliardi di euro.

In un'Italia così provata dalla crisi economica e sociale, appare lecita la domanda: avremmo potuto permetterci, per i documenti non in regola delle ditte subappaltatrici, di perdere un assegno da 1,8 miliardi di euro? Proprio sull'Ilva e su Fincantieri si è soffermato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, in una intervista al Sole 24 Ore del 15 luglio: «Monfalcone non è Taranto. Taranto è il frutto della difficoltà di riportare una struttura industriale all'interno della normativa ambientale attuale, Monfalcone è un intervento su un singolo segmento di attività industriale. Detto questo, non è un'opinione che il giudice si deve far carico dell'impatto delle sue decisioni, perché la legge prevede la proporzionalità dell'intervento cautelare. La legge dice che deve tener conto di come impatta la sua decisione. Ma la domanda è: il magistrato ha tutti gli strumenti? Non sempre la risposta è sì. Quindi, credo che le strade da percorrere siano due: formazione e specializzazione». Dunque, esiste – nella società e nell'economia italiana – un tema prima di sensibilità e poi di competenze di lungo periodo. L'economia italiana è una economia di trasformazione. L'economia italiana ha una componente tutt'altro che irrilevante nell'industria primaria. Negli anni Ottanta la sensibilità ambientale, da fenomeno elitario, ha incominciato a diventare un elemento della coscienza civica dell'Occidente. Quell'Occidente che, nei due secoli precedenti, si è sviluppato attraverso le concerie e le ferriere, i lanifici e le fornaci. In Italia, fin dagli anni Ottanta l'attenzione per l'ambiente ha iniziato a permeare la cultura di impresa.

In una lettera pubblicata sul Corriere della Sera di venerdì 17 luglio, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi è stato netto: «Riconosco che in passato non tutta l'industria ha avuto la giusta sensibilità sui temi ambientali, ma con la stessa franchezza vorrei fosse chiaro che l'immagine che si tenta di diffondere di un'industria “refrattaria” alle regole ambientali è falsa e assolutamente lontana dalla realtà del nostro sistema produttivo». È così. È almeno dagli anni Novanta che il sistema produttivo italiano ha assorbito la questione ambientale facendone uno degli elementi della sua cultura industriale. Chi lavora le pelli, chi si dedica al tessile, chi realizza piastrelle, chi si occupa di chimica, chi produce carta. Non c'è un settore che, oggi, sia diventato cosa totalmente altra rispetto ad esempio agli anni Settanta. In un mondo che cambia alla velocità della luce, non si può sottrarre a questa dinamica storica anche il rapporto fra diritto ed economia, magistratura e imprese.

Proprio alla luce di questa evoluzione, appare interessante il dialogo a distanza che si è sviluppato fra il leader degli industriali e il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini. Legnini, a proposito del decreto legge del Governo in merito a Ilva e a Fincantieri, era intervenuto sul Corriere della Sera del 5 luglio con una lettera dal contenuto equilibrato ma chiaro: «Se sulla magistratura si riversano maggiori aspettative e domande, occorre che essa orienti sempre più le sue decisioni a ponderazione, specializzazione e piena consapevolezza della forte incidenza della giurisprudenza sul caso concreto e sul sistema in generale. Così, cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie, il loro impatto sull'economia e sulla società non può più essere considerato un tabù».

Monfalcone e Taranto sono due esempi di interventismo duro da parte della magistratura. La linea “interventista” della magistratura appare una evoluzione degli ultimi anni, confermata per esempio l'anno scorso dal sequestro (poi venuto meno) della Siderpotenza, il forno elettrico della famiglia Pittini in Basilicata. Questa linea “interventista”, peraltro, in passato si è alternata ad atteggiamenti coerenti con la razionalità economica industriale: nel 2001 lo stabilimento a ciclo integrale dei Lucchini a Servola, vicino a Trieste, viene sequestrato per problemi ambientali. Non smette mai di funzionare: in una prima fase è sequestrato con facoltà d'uso e viene riconsegnato al management, che deve avere il placet del magistrato per ogni operazione a impatto ambientale; in una seconda fase cade il sequestro, vincolato alla realizzazione di alcune prescrizioni indicate dall'Università di Trieste.

Dunque, il contesto appare in evoluzione: sia sul medio periodo, sia in queste ultime settimane. I leader degli imprenditori, gli esponenti dell'organo di autogoverno della magistratura, i ministri e i premier “si parlano”: con le parole e con i fatti. Intanto, lunedì il gip di Taranto solleva la questione di costituzionalità dell'ultima misura del Governo sull'Ilva e su Fincantieri. E ieri la Procura di Taranto manda all'Ilva i carabinieri per identificare chi, fra gli operai, ha tolto i sigilli all'altoforno 2, quello sequestrato e in teoria (e in diritto) “liberato” dall'ultimo decreto del Governo. Una decisione che sta creando una grande agitazione fra i lavoratori e i sindacalisti. E che sta inducendo i commissari a riflettere se sia opportuno spegnere appunto l'altoforno 2. Il che provocherebbe – per ragioni di sicurezza – anche lo spegnimento dell'altoforno 4 e, dunque, la chiusura dell'acciaieria. Ce la possiamo permettere?

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