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I doveri verso Gerusalemme

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L’ANALISI

I doveri verso Gerusalemme

È sempre difficile trovare frasi lontane dalla retorica quando un capo di governo europeo va in visita in Israele.
Troppi valori, troppa storia, troppi sensi di colpa riempiono l’aria altrimenti tersa sopra le mura di Gerusalemme, il memoriale di Yad Vashem, le pericolose frontiere dello stato ebraico. Antisemitismo, Olocausto, sicurezza. Matteo Renzi non poteva fare eccezione: è un dovere riconoscere il diritto di esistere d’Israele. Di più: quello all’esistenza non è solo un diritto ma un dovere che la comunità internazionale deve garantire allo stato ebraico. E ancora: «La sicurezza d’Israele è la sicurezza dell’Europa». Renzi è il primo capo di governo straniero in visita in Israele dopo gli accordi di Vienna sul nucleare iraniano. Come per telefono hanno già fatto Barack Obama e altri leaders, l’obiettivo politico del primo giorno di Renzi in Israele è rassicurare, blandire, garantire che la logica di quell’accordo storico è dare più sicurezza, non abbandonare l’alleato israeliano. Ieri era a Gerusalemme anche Ashton Carter, il segretario alla Difesa americano, venuto a dare rassicurazioni più concrete, materiali, militari. Gli Stati Uniti sono pronti ad aprire a Israele i loro arsenali più di quanto già non facciano da una
quarantina d’anni.

Come è noto Bibi Netanyahu, il suo governo di estrema destra, l’opposizione laburista, la maggioranza dei giornali e dell’opinione pubblica sono tutti convinti che il compromesso con l’Iran sia “un errore storico”. Anche se una parte dei vertici militari e dell’intelligence pensano che forse l’accordo di Vienna “non sia così male”.
Forse pensando al vasto dissenso israeliano, nelle sue dichiarazioni Renzi ha enfatizzato una punteggiatura diversa, rispetto a ciò che i suoi colleghi hanno detto agli israeliani. L’Italia sostiene il compromesso che Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania hanno raggiunto con l’Iran (nel 5+1 una volta c’eravamo anche noi ma Silvio Berlusconi presidente del consiglio pensò che per l’Italia fosse meglio stare fuori). Tuttavia, ha sostenuto Renzi, l’accordo non può compromettere la sicurezza d’Israele. È evidente che questa fosse l’intenzione dei sei paesi firmatari, degli europei che l’hanno sostenuto (la renziana Federica Mogherini), dei paesi dell’Onu che l’hanno appena approvato: allontanare un conflitto, non favorirlo.

Solo gli israeliani e i repubblicani americani pensano il contrario. Sottolineare così enfaticamente la priorità della sicurezza d’Israele sul compromesso di Vienna, quasi mettendoli in antitesi, fa pensare alla perenne tentazione italiana di terzismo: siamo a favore ma. Come sull’Ucraina, partecipando alle sanzioni contro la Russia ma restando fra i partner europei i più comprensivi delle ragioni di Vladimir Putin. O sull’Egitto del cui presidente elogiamo il riformismo economico, la lotta al terrorismo ma tendiamo a ignorare le tentazioni autoritarie sempre più evidenti del suo regime.
È tradizione diplomatica e anche “It’s the economy, stupid”, per citare la frase che nel 1992 fece vincere la presidenza a Bill Clinton. Russia ed Egitto sono due partner fondamentali per la nostra economia. E ieri una parte importante della giornata di Matteo Renzi in Israele è stata a Tel Aviv, più moderna e hi-tech di Seattle. I numeri dell’interscambio fra Italia e Israele non possono essere giganteschi ma un paese che ha estremo bisogno d’innovazione (l'Italia) non può ignorare il più innovato dei paesi (Israele). In una sola settimana le startup israeliane hanno raccolto 900 milioni di dollari in investimenti internazionali. Ed era solo gennaio, dopo un 2014 da record: 3,4 miliardi.

Considerando la geografia politica d’Israele, il suo successo economico è miracoloso. Tuttavia il mese scorso un rapporto della Rand Corporation, l’autorevole think tank californiano, sosteneva che se Israele trovasse un accordo con i palestinesi, il “dividendo della pace” garantirebbe 123 miliardi di dollari in dieci anni: al netto degli oltre 200 che costerebbe invece uno stato di guerra. I palestinesi guadagnerebbero 50 miliardi e il loro Pil procapite aumenterebbe del 36%.
Il miracolo economico di un Israele in guerra scolorirebbe di fronte al toccasana della pace. Essendo per gli israeliani i più affidabili fra gli europei, gli italiani hanno il dovere di aiutare gli israeliani a riprendere la strada del negoziato con i palestinesi. La lunga trattativa sul nucleare iraniano aveva oscurato la madre di tutte le paci mediorientali. Stati Uniti ed europei non volevano mettere troppa carne al fuoco. Ma presto i francesi presenteranno all’Onu una nuova risoluzione sul conflitto per imporre la ripresa del negoziato. E la Ue dovrebbe approvare presto le “linee guida” per un boicottaggio di tutto ciò che d'israeliano viene prodotto nei territori occupati. Verrà presto il momento di chiarire agli israeliani cosa significa essere loro amici.

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