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Il rischio default che l’Europa non vuole vedere

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EURO E CRESCITA

Il rischio default che l’Europa non vuole vedere

Nella fatidica notte del vertice del 13 luglio qualcuno che c’era nelle segrete stanze racconta che alla fine si era convertito al partito di Grexit in versione tedesca, accompagnato cioè dal contestuale ricompattamento dell’eurozona, da un salto di integrazione economica e politica quasi immediato.

La sua prima preoccupazione, quindi, era stata di cercare di capire che cosa significasse in concreto quel salto: garanzia europea sui depositi bancari? Un vero meccanismo europeo di risoluzione per le banche? Un bilancio dell’eurozona degno del nome? Insomma l’attesa svolta verso vere politiche di solidarietà e di mutualizzazione dei rischi, che invece finora sono mancate nella moneta unica, in primis per le adamantine resistenze tedesche? Dopo aver collezionato una raffica di stupiti “nein” per il tenore delle domande poste, il nostro confessa di essersi brutalmente risvegliato da una subitanea ma fallace folgorazione sulla via di Bruxelles.

Mentre l’ombra di Grexit non riesce a dissolversi, perlomeno non ancora, l’episodio offre un flash illuminante su quali siano i reali problemi dell’euro: eliminata la “bestia nera”, accusata di essere all’origine della prepotente crisi di fiducia reciproca che scuote e paralizza il gruppo, sarebbe cambiato ben poco nello spirito e nella sostanza dell’euro-governance. In breve, l’uscita di Atene coniugata con un governo più forte della moneta unica si sarebbe limitata nei fatti a consolidare l’egemonia tedesca sull’euro a tutto vantaggio della Germania. Di nessun altro. Per questo il dramma ellenico mette efficacemente a nudo tutta la crisi europea.

La Grecia di Alexis Tsipras sta espiando con metodo (per ora) i suoi peccati seguendo la lista di lunghe e pesanti penitenze che il vertice di metà luglio le ha imposto in cambio del terzo salvataggio da 86 miliardi. L’altra notte il parlamento ne ha approvato la seconda tappa. Secondo Bruxelles lo ha fatto «nei tempi previsti e in genere in modo soddisfacente».

Tanto che oggi ricominceranno ad Atene i colloqui con i creditori della troika con l’obiettivo di raggiungere un accordo entro il 20 agosto, in tempo per ripagare la rata da 3,2 miliardi dovuta alla Bce. In caso contrario, per evitare il nuovo rischio default, potrebbe scattare un nuovo prestito-ponte.

In attesa di vedere se e come Tsipras ce la farà a continuare a remare, senza affondare, tra i marosi di un Paese indebolito di nuovo in recessione (-2%-2,5% atteso quest’anno) e con i disoccupati alle stelle, contro il suo partito spaccato e contro le sue stesse convinzioni cui ha abiurato per palese necessità nazionale ma senza convertirsi al credo dell’attuale euro-dottrina economica, i dubbi oggi ancora più decisivi riguardano il futuro dell’eurozona oltre il destino ellenico.

Anche tralasciando i sentimenti anti-tedeschi che il draconiano diktat elaborato per Atene ha suscitato quasi ovunque nell’area e che certo non faciliterà a breve il buon esito di eventuali negoziati per creare l’unione economica e politica dopo quella monetaria, l’insostenibilità del debito greco cresciuta a dismisura nel quinquennio recessivo della cura europea e che crescerà ancora ma oggi è accompagnata dal netto rifiuto tedesco a una sua parziale remissione, come chiedono invece Fmi e Francia, pone interrogativi sulla effettiva saggezza dell’attuale politica europea impregnata di “fiscal compact”, di contabilità finanziar- riformista ma avulsa dalle ragioni dello sviluppo.

Non sono interrogativi irrilevanti quando la Germania, il Paese-guida e motore dell’euro a tutti gli effetti e il più virtuoso, cresce meno della metà degli Stati Uniti e ha più disoccupati (6,4% contro il 5,3%), pur vantando un surplus corrente del 7% del Pil a fronte di un deficit Usa vicino al 3% e un debito pubblico al 72% contro il 102 %.

Siccome la lenta crescita europea non è congiunturale ma strutturale visto che perdura da anni, forse sarebbe il momento di rimettersi tutti in discussione, dogmi e certezze e surplus compresi con quella stessa flessibilità che giustamente Berlino non cessa di predicare a partner riluttanti a scrostarsi di dosso sprechi, rendite di posizione e modelli sclerotici. E con un’equilibrata apertura verso l’Europa e l’euro che oggi sarebbe prima di tutto nell’interesse tedesco.

Perché, a guardare bene, oggi il rischio default non abita solo ad Atene. Alla lunga, di questo passo, toccherà l’Europa intera.

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