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OLTRE LA CRISI GRECA

Strauss-Kahn: «Solidarietà civica» collante d’Europa

Hollande non ha ceduto. Merkel ha sfidato chi non voleva un accordo a qualsiasi costo. E va reso loro merito. È stato così predisposto un piano che ha buone possibilità di riuscita, e che respinge, o forse azzera addirittura, i rischi di una Grexit. È poco, ma è già molto. Quanto alle condizioni di questo accordo, però, sono assolutamente spaventose per chi crede ancora nel futuro dell'Europa. Io sono del parere che quanto è successo lo scorso fine settimana sia profondamente deleterio, quasi fatale. Non mancano, ovviamente, quanti dubitano di questo futuro: sono tanti, di due diverse scuole di pensiero, e se ne rallegreranno.

Appartengono alla prima scuola di pensiero tutti coloro che hanno la vista troppo corta, quelli il cui nazionalismo impedisce loro di guardare al di là dei propri confini, e che quindi si interrogano invano sull'esistenza stessa dell'Europa. Ma che cosa è veramente l'Europa? Da dove emerge questo continente? L'Europa è nata dei poemi di Omero del IX secolo prima di Cristo? È nata forse nelle trincee di fango e melma nelle quali si mescolò il sangue dei soldati di ogni parte del mondo, insieme ai loro colori, i loro sogni e le loro ambizioni? È forse nata in tempi ancora più vicini a noi, e anche più prosaicamente, nei minuziosi e laboriosi trattati dell'Unione europea? Indubbiamente, era già presente nella mente di Erasmo da Rotterdam quando, nel 1516, scrisse nel “Lamento della pace” che “l'inglese è nemico del francese soltanto perché costui è francese; il bretone detesta lo scozzese soltanto perché costui è scozzese. Il tedesco è ai ferri corti con il francese e gli spagnoli con l'uno e l'altro. Oh perversità dell'animo umano! A dividerli è sufficiente la sola differenza apparente dei nomi dei loro paesi! Perché non si riconciliano invece intorno ai valori che condividono?”.

Oltre al gruppo dei miopi, c'è il gruppo di coloro che hanno la vista troppo lunga, quelli capaci di vedere più lontano dei propri confini ma che hanno scelto di rinunciare a far vivere questa comunità che, nonostante tutto, è la più vicina. Guardano altrove, più a ovest, in direzione di coloro ai quali hanno accettato di sottomettersi. È a questo che pensava Emil Cioran, quando scrisse le sue parole di rabbia impotente che ancora risuonano nelle nostre teste: “Come contare sul risveglio, sulle collere dell'Europa? La sua sorte e persino le sue rivolte sono decisamente altrove”.

Ci sono infine coloro che non si riconoscono né in un gruppo né nell'altro, e io appartengo a questa schiera. È a queste persone che mi rivolgo, ai miei amici tedeschi che credevano nell'Europa che fino a poco tempo fa abbiamo voluto costruire insieme; a coloro che pensano che una cultura europea esista; a quelli che sanno che i paesi che ne delineano i contorni, e dei quali i libri di storia ripercorrono in genere soltanto le guerre, di fatto hanno plasmato e creato una cultura comune unica, diversa da qualsiasi altra.

Questa cultura non è più ricca di altre, né più gloriosa, né più nobile, ma non è neppure inferiore ad altre. È stata forgiata in questo amalgama particolare nel quale si fondono individualismo e universalismo egalitario, e incarna e rivendica più di qualsiasi altra quella che il filosofo tedesco Jürgen Habermas chiama la “solidarietà civica”, quando scrive, per esempio, che “il fatto che la pena di morte in altri paesi sia ancora applicata serve a rammentarci di cosa è fatta la specificità della nostra coscienza normativa”.

Noi siamo depositari di questa cultura. Tra noi, tra fratelli europei, c'è una lunga storia, il lento formarsi di una coscienza in decine e centinaia di anni, in un avvicendarsi di sacrifici e dolori ma anche di momenti nobili e, naturalmente, di conflitti. Abbiamo dovuto superare queste rivalità, di una violenza talvolta inaudita, senza mai dimenticarle. Non so se da queste prove europee che hanno contribuito a plasmare la storia del mondo siamo usciti più forti. Tuttavia, sono fermamente convinto che abbiamo acquisito una propensione del tutto particolare a diventare una società solidale.

L'Europa è Michelangelo, Shakespeare, Cartesio, Beethoven, Marx, Freud e Picasso. Loro, e molti altri ancora, ci hanno insegnato a dar vita a una condivisione tra natura e cultura, tra religiosità e laicità, tra fede e scienza, tra individuo e collettività. Proprio questa eredità a noi comune – scolpita nel profondo del nostro ‘io' collettivo, al punto che non smette di ispirare le opere di cui siamo stati, siamo e saremo capaci – ci ha permesso di porre fine alle guerre interne tra di noi. Ma il demone che ci potrebbe far tornare agli errori del passato non è mai troppo lontano, e lo dimostra quanto è successo lo scorso fine settimana, a dir poco funesto: non intendo discutere nei dettagli le misure imposte alla Grecia per capire se siano benvenute, legittime, efficaci, adatte, ma vorrei sottolineare il fatto che il contesto nel quale è nato questo diktat ha creato un clima devastante.

Comprendo che il dilettantismo del governo greco e la relativa inerzia dei suoi predecessori abbiano superato il limite. Capisco che la coalizione dei paesi creditori guidata dai tedeschi sia esasperata dalla situazione che si è venuta a creare. Questi dirigenti politici, però, fino a poco prima mi erano parsi troppo avveduti per voler cogliere l'occasione di una vittoria ideologica su un governo di estrema sinistra col rischio di frammentare l'Unione. Perché è di questo che stiamo parlando: contiamo i nostri miliardi invece di utilizzarli per costruire; rifiutiamo di prendere atto di una perdita – per quanto evidente – e di accettarla; continuiamo a respingere l'impegno a ridurre il debito; preferiamo umiliare un popolo perché è incapace di cambiare e riformarsi; anteponiamo il risentimento – seppur giustificato – ai progetti per il futuro: così facendo, noi stiamo voltando le spalle a ciò che l'Europa deve essere, voltiamo le spalle alla solidarietà civica di Habermas. Sprechiamo le nostre forze in battibecchi continui tra noi e corriamo il rischio di innescare un meccanismo a scoppio. È a questo che siamo arrivati. Una zona euro che dovesse funzionare in base a un meccanismo imposto da una vostra legge, amici miei tedeschi, appoggiati da qualche paese baltico e nordico, sarebbe inaccettabile per tutti gli altri.

L'euro è stato concepito come un'unione monetaria inadeguata, plasmata su un accordo ambiguo tra Francia e Germania. Per la Germania si trattava di predisporre un sistema di tassi fissi di cambio intorno al marco tedesco e di imporre con tale sistema una certa visione ordoliberale della politica economica. Per la Francia si trattava di stabilire, in modo un po' ingenuo e romantico, una valuta di riserva internazionale all'altezza delle ambizioni della grandezza delle sue élite. È giunto ora il momento di lasciare perdere questa ambiguità iniziale, diventata devastante, e questi progetti autarchici, anche se tutti sanno che solo a proprie spese si esce dall'ambiguità. Per ottenere ciò è indispensabile uno sforzo collettivo, tanto in Francia quanto in Germania. Ogni paese incontra ostacoli non indifferenti lungo questo cammino. La Germania è schiava di una visione falsa e incoerente sul funzionamento dell'unione monetaria, in buona parte condivisa dalla sua classe politica e dalla sua popolazione. In Francia, al contrario, l'indolenza e il latente sovranismo delle élite economiche e intellettuali sono tali che di fatto non esiste un'idea o una visione intelligente e rinnovata della struttura dell'unione monetaria che possa trovare un appoggio popolare.

Inventare questa visione comune è indispensabile, quanto prima. Non mi venite a dire che pensate di salvare l'Europa soltanto imponendo regole di sana amministrazione! Nessuno più di me ha a cuore il rispetto dei grandi equilibri ed è questo ad averci sempre avvicinati. Ma occorre far rispettare le regole in piena democrazia, dialogando, ragionando, non certo imponendole con la forza. Non mi venite a dire che le cose per voi stanno così e basta, e che, se non saranno disposti a capirlo, voi andrete avanti senza di loro!

Fare affidamento sul Nord non vi basterà mai a salvarvi. Voi, come tutti gli europei, avete bisogno dell'Europa intera per sopravvivere. Divisi siamo troppo piccoli, contiamo poco. La globalizzazione ci mette sotto gli occhi la comparsa di vasti spazi geografici ed economici chiamati a interagire e a farsi concorrenza per i decenni a venire. Forse, per secoli. Le zone di influenza che si vanno delineando, come pure i raggruppamenti che si stanno creando, rischiano di durare a lungo. È facile per chiunque accorgersi di come si vada configurando la zona dell'America del Nord: attorno agli Stati Uniti si riuniranno i suoi satelliti canadesi e messicani, forse altri ancora. Tutto oggi lascia suppore che l'America del Sud riuscirà a raggiungere una forma di autonomia. In Asia, due o tre zone riusciranno a distinguersi, a seconda che, oltre alla Cina e all'India, anche il Giappone riesca a coagulare attorno a sé sufficiente solidarietà, in quanto è troppo piccolo per restare da solo. L'Africa, finalmente, si sta risvegliando, ma ha bisogno di noi. Quanto al mondo musulmano, sconvolto di questi tempi dal subbuglio legato allo sfruttamento politico dell'Islam effettuato da alcuni, farà indubbiamente fatica a trovare l'unità. L'Europa potrà essere uno di questi protagonisti della ribalta internazionale, ma non è ancora sicuro che lo sarà. Per riuscirci, dovrà avere l'ambizione di stringersi e rafforzarsi nell'Unione attuale, e anche oltre. Per sopravvivere tra i giganti, l'Europa dovrà raggruppare tutti i territori compresi tra i ghiacci del Nord, le nevi degli Urali, i deserti del Sud. In altri termini, l'Europa dovrà ritrovare le proprie origini e nell'arco di qualche decennio e non di più arrivare a considerare il Mediterraneo come il nostro mare interno.

La logica storica, la coerenza economica, la sicurezza demografica, alle quali aggiungerei – al di là delle apparenze – anche una vicinanza culturale dovuta alla diffusione delle religioni del Libro, ci indicano la strada da seguire. E invece tutti, ogniqualvolta si presenta un conflitto interno, guardiamo a Nord trascurando il Sud. Invece la culla della nostra cultura è proprio là. È il Sud che darà alla vecchia Europa il sangue nuovo delle giovani generazioni. È il Sud che farà dell'Europa il punto di passaggio obbligato tra Oriente e Occidente. Alessandro Magno, Napoleone, le nostre folli ambizioni coloniali credettero di poter dar vita a questa unità con la forza delle armi. Quel metodo, crudele ed esecrabile, ha fallito, ma quell'ambizione aveva tuttavia giuste premesse. E così continua ad averle. La posta in gioco è considerevole. Un'alleanza di paesi europei, anche se guidati dal più potente tra di loro, sarà poco in grado di affrontare da sola la pressione russa e tra non molto sarà resa vassalla dal nostro alleato e amico americano. Alcuni hanno già scelto questa strada: sono coloro che poco fa ho definito persone dalla vista troppo lunga. Ma non per tutti è così, ed è dunque agli altri che mi rivolgo in particolare.

L'Europa che io sogno e auspico dovrà ovviamente avere le sue regole e la sua disciplina di vita comune, ma dovrà avere anche un progetto politico che le vada oltre e che legittimi questi vincoli. Oggi sembra che l'abbiano dimenticato tutti. Il nostro modello europeo può diventare un modello per altri popoli che si rifiutano di perdere la faccia nell'unico stampo in arrivo dall'altra sponda dell'Atlantico. Per essere un modello, però, l'Europa deve guardare lontano. Deve affrancarsi delle proprie meschinerie. Deve fare la sua parte nella globalizzazione. Deve, insomma, continuare a fare la Storia.

Traduzione di Anna Bissanti

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