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Quando la Grecia eravamo noi

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Europa

Quando la Grecia eravamo noi

Quarant’anni fa l’Italia corse il rischio, pressoché analogo (con le debite varianti) a quello incontrato ultimamente dalla Grecia, di essere emarginata dalla Comunità europea. Talmente grave e senza efficaci antidoti era la situazione in cui venne a trovarsi dopo la sua uscita nel marzo 1973 dal Serpente monetario europeo e lo shock petrolifero sopraggiunto all’inizio dal 1974, che innescò una spirale inflattiva più elevata rispetto ad altri Paesi avanzati (eccetto il Giappone) e una fase recessiva, con un forte aumento della disoccupazione e un calo del tasso di crescita del Pil.

Oltre a un cospicuo deficit della bilancia commerciale agricola (dovuto non solo alle conseguenze di un intervento pubblico in agricoltura frammentatosi dopo il passaggio delle relative competenze alle Regioni, ma anche al fatto che la politica comunitaria di sostegno dei prezzi avvantaggiava i prodotti continentali rispetto a quelli mediterranei), il peggioramento delle ragioni di scambio provocato dall’eccezionale aumento dei prezzi del petrolio e di altre materie prime, ma pure dai costi di varie licenze di fabbricazione e dall’importazione di prodotti a più alto contenuto innovativo, e, per giunta, una massiccia fuga di capitali, concorsero tutt’insieme a rendere sempre più pesante il disavanzo strutturale dei nostri conti con l’estero.

Perciò non poteva più servire da argine la manovra attuata in precedenza dalla Banca d’Italia sul cambio della lira per garantire contemporaneamente una sua rivalutazione sul dollaro (a beneficio delle nostre importazioni) e una sua svalutazione sul marco (a beneficio di numerose nostre esportazioni). D’altra parte, le misure “d’emergenza” varate al quarto governo Rumor di centro-sinistra (successo nel luglio 1973 a quello di centro-destra Andreotti-Malagodi), come il blocco della circolazione automobilistica nei giorni festivi e la riduzione del 40 per cento dell’illuminazione pubblica, non ebbero alcun reale effetto per un contenimento dei consumi.

Dopo che il governo aveva già accumulato in precedenza un pesante indebitamento sui mercati finanziari internazionali privati, non rimase perciò, di fronte all’aggravamento della bilancia dei pagamenti, che negoziare, nell’aprile 1974, con il Fondo monetario internazionale l’apertura di una linea di credito stand-by, sino a un miliardo di “diritti di prelievo”; e ricorrere in agosto alla Bundesbank per la concessione di un prestito di due miliardi di dollari contro il deposito di un quinto delle riserve d’oro di Bankitalia. Inoltre, in dicembre, fu necessario far appello alla Commissione di Bruxelles perché la Cee ci concedesse un prestito per 1.400 milioni di dollari, in cambio di una “lettera d’intenti” con cui il governo s’impegnava a correggere in modo tangibile entro il 1975 il disavanzo con l’estero non legato al balzo dei prezzi petroliferi, e ad attuare una politica economica e monetaria di maggior rigore: a cominciare da una stretta creditizia e all’adozione di nuove imposte dirette.

Senonché crebbe, l’anno successivo, l’allarme per la sorte del Paese in seguito, da un lato, al peggioramento della congiuntura economica (fra contrazione della produzione industriale e degli investimenti e la caduta, per la prima volta dal dopoguerra, del Pil, con un meno 2,7 per cento) e, dall’altro, all’offensiva armata delle Brigate Rosse e di altri gruppi estremisti. Mentre s’accentuò nel contempo la crisi finanziaria delle maggiori imprese, il debito pubblico superò il 60 per cento del Pil e le crescenti difficoltà del suo collocamento costrinsero il quarto governo Moro (in carica da novembre) ad addossare a Bankitalia l’obbligo di acquistare i titoli invenduti nelle aste con un conseguente aumento della base monetaria. Ma queste e altre misure eccezionali non bastarono a scongiurare nel corso del 1976 un ulteriore aggravamento della bilancia dei pagamenti e di quella valutaria: tanto che, di fronte a una forte speculazione sulla lira, venne decretata la chiusura temporanea del mercato dei cambi, unitamente a una massiccia svalutazione, e si dovette negoziare un nuovo prestito stand-by col Fmi e chiedere alla Cee un ulteriore prestito di un miliardo di dollari, impegnandosi a rispettare un tetto massimo nel fabbisogno statale, nella spesa pubblica e nel finanziamento della Banca d’Italia al Tesoro, nonché a praticare una politica monetaria restrittiva e a tenere sotto controllo i prezzi. Questa trafila di soccorsi internazionali e le loro clausole sempre più severe e vincolanti imposero una rigorosa politica d’austerità. Ma solo così i successivi governi Andreotti, della “solidarietà nazionale”, giunsero tra il 1977 e il 1978 a scongiurare il pericolo di un declassamento irrimediabile dell’Italia e a creare le condizioni per la sua adesione al Sistema monetario europeo.