Ha necessità di molti auguri di buon lavoro la nuova coppia di comando della Rai impersonata dalla presidente Monica Maggioni (giornalista, direttrice di RaiNews24) e dal giovane direttore generale in pectore Antonio Campo Dall’Orto, già a La7 e ad MTV e presto ad con i poteri rafforzati dalla riforma disegnata dal governo Renzi. Dopo la scialba pagina parlamentare della nomina dei sette consiglieri, scelti col bilancino della politica in barba al criterio promesso della rottamazione di un metodo “concertativo” che non esalta la ricerca di professionalità adeguate, le scelte dell’esecutivo Renzi – oltre alla Maggioni il professor Marco Fortis, più il rinnovato sostegno di Renzi alla candidatura di Campo Dall’Orto – hanno provato a rendere meno indigesto il quadro. Un obiettivo raggiunto solo in parte, e che comunque andrà poi verificato, risultati alla mano, nei fatti.
Di sicuro la nuova Rai parte in salita. I buoni propositi sui possibili modelli di riferimento culturali e societari – a partire dalla mitica BBC britannica - hanno cominciato a scricchiolare subito assediati, sottotraccia, dall’ansia partitica e correntizia per il controllo su un’impresa ibrida ma certamente più a cavallo dello Stato che del mercato. Del resto, la Rai è prima di tutto un formidabile serbatoio di consenso politico al quale attingere: ogni giorno il 75% degli italiani, cioè 42 milioni di cittadini, interagisce con i suoi strumenti di comunicazione sui quali passa in media 113 minuti al giorno.
Su questa realtà è calata la riforma Renzi, molto centrata sulla governance societaria e che assegna al governo, attraverso il capo azienda, un ruolo decisivo. Infine s’è presentata, al solito ricorrente, l’emergenza: il consiglio Rai era scaduto e bisognava mettere mano alle nomine. Ma la riforma procedeva a rilento in Parlamento (è stata approvata solo dal Senato) e dunque si è finiti nell’imbuto del rinnovo del consiglio d’amministrazione con le attuali regole, quelle previste dalla legge Gasparri che la riforma Renzi vuole cambiare.
Che la Rai abbia bisogno di una svolta nella sua governance non c’è dubbio. La presidente uscente Anna Maria Tarantola, che pure sostiene che “molto è cambiato”, l’ha tratteggiata di recente con queste parole: «Un coacervo di realtà stratificate, incastrate, spesso avviluppate su se stesse, la Rai non si comporta come un corpo solo, ma secondo logiche di separatezza, secondo un’organizzazione a silos».
Ai piedi di questi silos, il nuovo cda – un «bel consiglio di professionisti», ha detto il premier prendendo però sottilmente le distanze dalle scelte maturate in Parlamento - e la nuova coppia di timonieri dovranno provare ad alzare la posta della sfida. Compito non facile. Per cominciare perché assicurare un’informazione di qualità, indipendente e credibile, è sempre un esercizio nei fatti più complicato di una bella discussione teorica sulla natura e gli orizzonti del “servizio pubblico”. E poi perché il contesto politico-culturale è tale per cui al millimetrico dosaggio spartitorio che si consuma per ogni poltrona o strapuntino nei cortili della “maggiore impresa culturale del Paese” non corrisponde una pari attenzione a ciò che va cambiando nel mondo – a colpi di miliardi - sui mercati della multimedialità. Gli scossoni di Google, Amazon e Facebook paiono qui terremoti lontani, così come la convergenza industriale tra gli operatori delle telecomunicazioni e le media company è vista come un caso assai oscuro – un po’ come i nuovi standard digitali - da far trattare agli specialisti di settore.
Ad ottobre sbarca anche in Italia Netflix, che offre film e serie tv a prezzi bassissimi? Poco importa, pare. Però dai silos Rai è filtrata poco tempo fa una grande soddisfazione per il ritorno, nel 2016, di “Rischiatutto”, lo storico programma di Mike Bongiorno che verrà riproposto da Fabio Fazio, e del “Processo del lunedi”, altro leggendario appuntamento sportivo. Molta nostalgìa, poca innovazione, più passato che futuro: sarà dura tirarli giù, quei silos.
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