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Perché l’Europa dovrà ancora fare i conti con la Merkel

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CONSENSI E AUSTERITÀ

Perché l’Europa dovrà ancora fare i conti con la Merkel

Gli ultimi sondaggi attribuiscono al partito della cancelliera Angela Merkel (Cdu-Csu) la maggioranza assoluta dei seggi. Non succedeva dal 2005, quando le dure riforme del cancelliere Schröder erano costate così care al partito socialdemocratico (Spd) da non essere mai più recuperate. Per l’Spd è un incubo che si realizza: ha cambiato il Paese colpendo il proprio elettorato, ma i meriti li prende la Cdu che le riforme le ha semmai ridimensionate e che ora può cedere a una tentazione che risale agli anni Settanta: diventare per la Germania quello che la Csu è da sempre per la Baviera, il partito della nazione, e per l’Europa, nel bene e nel male, l’unico riferimento politico stabile fino al 2021.

C’è una componente apolitica nell’identificazione dei tedeschi nella cancelliera Merkel, una donna senza prole ma che i giornali chiamano Mutti (mammina), oppure è l’evoluzione delle politiche nazionali che si orientano verso partiti di centro maggioritari (perfino Syriza lo sta diventando) per negoziare meglio nel contesto competitivo della politica europea? Le due opzioni sono legate.

Wolf Lepenies parla dopo l’unificazione di un’anima tedesca «profondamente apolitica», ma fa parte della tradizione culturale tedesca distinguere la Kulturnation, in riferimento a valori morali e intellettuali, rispetto alle scelte pratiche tipiche della civilizzazione politica, dell’organizzazione sociale ed economica. Thomas Mann parlava di un popolo incline alla morale anziché alla politica, per il quale la Critica di Kant è un atto più radicale della proclamazione dei diritti dell’uomo. Anche a questo scarso rispetto per l’arbitrio della politica e al timore per le derive catastrofiche del Novecento si lega la preferenza per sistemi di regole rigide e applicate giuridicamente nel rapporto tra Stati, cioè nella relazione che nei due secoli passati più aveva risentito del radicalismo ideologico.

Merkel si innesta in questa tradizione come l’esecutore affidabile del mandato apolitico degli elettori.

Condivide con gran parte dei suoi alleati in Europa lo strano destino di essere cresciuta sotto una dittatura. Chi ne è sopravvissuto conserva una diffidenza per gli abusi che l’ideologia esercita sulla realtà. La falsificazione dei fatti è l’epitome di tali abusi. La Germania Est aveva falsificato i propri conti al punto che il suo Pil era un quarto di quello stimato da Washington nel 1989. Fu il debito estero, fino ad allora nascosto, a costringere Egon Krenz a dissolvere lo Stato e a cedere all’unificazione voluta da Helmut Kohl, ma negoziata da Wolfgang Schäuble. Nella dialettica della Ddr era frequente la parafrasi ironica di una frase di Hegel, secondo cui «la libertà è la comprensione della necessità». E come osserva oggi Karl Lamers, coautore di Schäuble, la necessità è stata ed è tuttora contribuire alla sovranità condivisa. La stampa tedesca prevede che Merkel sia pronta a ricandidarsi per la quarta volta nel 2017, ma è proprio la figura del ministro delle Finanze che ci rivela di più sul futuro europeo della Politica tedesca. È proprio Schäuble che nel ’94 definisce la sovranità nazionale un «guscio vuoto». In un colloquio Lamers mette sullo stesso piano i giudici costituzionali di Karlsruhe e l’ex ministro grecoVaroufakis perché rappresentano la difesa nazionale dello status quo in un mondo che cambia è che continuamente sottrae sostanza alle prerogative vantate dai sovrani nazionali. Anche il pensiero della conservazione nazionale - in Italia adesso si nasconde dietro la definizione di interesse nazionale, che sembra nuova solo perché è stato sempre saccheggiato da interessi particolari - è apolitico ed è una violenza ideologica sulla realtà interdipendente.

Questo è il retroterra culturale di Schäuble. Il ministro sa che l’euro-area ha urgente bisogno di una politica economica comune, una politica sociale che poggi su un’assicurazione comune contro la disoccupazione. La contrarietà nei confronti di un comune debito pubblico, compresi gli eurobonds, cesserà, assicura un suo consigliere, quando i paesi più in ritardo - e molti a Berlino hanno in mente l’Italia - avranno recuperato un livello adeguato di competitività. Per Merkel, che per arginare la pressione di Mario Monti aveva promesso ai suoi elettori “mai gli eurobonds finché vivrò”, sarà il passaggio più difficile perché la costringerà a compromettersi con la politica. Come una persona che detesta nuotare dovrà invece allontanarsi dalla sponda: dovrà spiegare ai cittadini tedeschi che l’Europa è già di fatto un’unione delle responsabilità in cui ognuno garantisce per gli altri e che questo oggi avviene in modo non trasparente e spesso ingiusto. Le istituzioni create negli ultimi anni per prestare aiuto ad altri paesi altro non sono che la sistemazione normativa di una realtà di fatto.

A confrontarsi su questo piano dovrebbero già disporsi gli altri paesi, sfidando la cancelliera a uscire dalla naturale introversione opportunistica e a raccogliere la sfida della tradizione tedesca del dopoguerra. Mentre in Francia il dibattito sul futuro dell’Europa è diventato il cuore della riflessione politica, in Italia la prospettiva di confrontarsi per altri sei anni con Merkel non viene nemmeno considerata come un elemento fondamentale del discorso politico. Il nostro paese sta abbandonando il linguaggio della “sovranità condivisa” e in parte dell’opinione pubblica prevale un sentimento primitivo e pericoloso di chiusura in cui l’egoismo apolitico Merkeliano si presta da bersaglio perfetto. Per la maggioranza dei parlamentari, chi invita al dialogo è assimilabile a un traditore e invitato a “restituire il passaporto”, proprio come nel ventennio. La perdita di memoria impedisce di capire il futuro. In un’intervista condotta nel carcere di Norimberga, Hermann Göring, spiegò come fosse stato possibile in Germania convincere milioni di individui pacifici a morire in guerra per uccidere i nemici. Come succede dappertutto, spiegò Göring, basta convincere il popolo che qualcuno da fuori lo minaccia e aggiungere che chi non vuole la guerra è un traditore della patria.

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