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Democrazia e autocrazia

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Scenari

Democrazia e autocrazia

C’è una critica persistente alle riforme elettorali e istituzionali promosse dal governo Renzi e dalla sua maggioranza. Quella di favorire un’involuzione autocratica della democrazia repubblicana.

Una critica pesante, che merita di essere presa in considerazione per l’autorevolezza delle voci da cui viene, ma non condivisibile. Se l’autocrazia è una forma di governo in cui il potere è concentrato in una sola persona, per involuzione autocratica della nostra democrazia s’intende un sistema di governo in cui il potere decisionale è concentrato nell’organismo esecutivo e nel suo leader (il primo ministro). Secondo i critici del governo Renzi, la combinazione di una legge elettorale maggioritaria (l’Italicum), con capilista scelti dalle segreterie di partito, e di un Senato costituito di rappresentanti delle autonomie territoriali (regioni e comuni), privo però del potere di dare o ritirare la fiducia al governo, produrrebbe necessariamente un esito autocratico. Contrastare questa critica, come ha fatto recentemente il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, significa esporsi ad una sorta di processo sommario per scarsa fede democratica. Ha scritto Eugenio Scalfari sulla Repubblica del 9 agosto: «Mi pare molto singolare che Napolitano non veda questo risvolto dell’abolizione di fatto del Senato. Un monocamerale in gran parte “nominato” dall’esecutivo ci avvia inevitabilmente all’autocrazia. È questo che si vuole?». Altri critici sono ancora più perentori. Ha scritto Michele Ainis sul Corriere della Sera del 7 agosto: «La concentrazione del potere sarà probabilmente la regola futura, se non è regola già adesso. Con l’unificazione delle Camere, attraverso l’abolizione sostanziale del Senato. E con il premio dell’Italicum: al partito, dunque al partito personale, dunque personalmente al Capo» sarà inevitabile che il nostro parlamentarismo assuma caratteristiche autocratiche. Stanno davvero così le cose? La difesa della riforma da parte Giorgio Napolitano è davvero un atto «singolare»?

Ragioniamo sui numeri. La riforma elettorale appena approvata dal Parlamento (l’Italicum) assegna al partito che ottenga più del 40 per cento dei voti, oppure che vinca il ballottaggio tra i due partiti più votati che però non hanno superato la soglia del 40 per cento al primo turno, un premio di maggioranza che gli consente di governare. Supponiamo ora che il Pd di Matteo Renzi vinca le prossime elezioni, al primo o al secondo turno. Ciò significa che esso avrà una maggioranza di 340 su 630 deputati, mentre l’opposizione o le opposizioni dovranno spartirsi i rimanenti 290 seggi. Come si vede, si tratta di una maggioranza abbastanza risicata. Infatti, sarà sufficiente che 25 deputati della maggioranza si pongano in dissenso con il loro governo per cambiare i rapporti di forza all’interno della Camera dei Deputati. Votando insieme alle opposizioni, essi potrebbero dare vita ad una nuova maggioranza parlamentare, in barba al presunto iper-maggioritarismo del sistema elettorale. Questo esito, sostengono i critici, appare però improbabile. I deputati, essendo stati “nominati” da Matteo Renzi nel suo ruolo di segretario di partito, saranno inevitabilmente fedeli a chi li ha nominati. È così? Non proprio. L’Italicum prevede che vengano nominati dai rispettivi partiti solamente i capilista delle 100 circoscrizioni elettorali in cui sarà diviso il territorio nazionale. Gli altri deputati verranno scelti con le preferenze. Se il Pd vincesse le elezioni, il premier Renzi potrà contare sulla lealtà dei 100 capilista da lui scelti, in qualità di segretario di partito, ma non necessariamente su quella degli altri 240 deputati eletti con le preferenze elettorali.

I critici della riforma sembrano essere a disagio non solo con i numeri, ma anche con l’esperienza delle moderne democrazie parlamentari. Per loro, la trasformazione del Senato (costituito di 100 senatori e non più di 315 come è ora) in una camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali (quindi non eletto direttamente dai cittadini esattamente come i senati delle grandi democrazie europee), priverebbe il sistema costituzionale di un indispensabile meccanismo per bilanciare il governo. Siccome, come scrive Eugenio Scalfari, le democrazie parlamentari si basano sul bilanciamento tra potere esecutivo e potere legislativo, l’abolizione del carattere elettivo del Senato e la riduzione dei suoi poteri legislativi equivalgono ad un indebolimento del secondo e ad un rafforzamento del primo, Anche in questo caso, la critica è priva di fondamento empirico. Nelle moderne grandi democrazie parlamentari, il bilanciamento è tra governo e opposizione, non già tra esecutivo e legislativo (come sostenevano i testi giuridici di un paio di generazioni fa). Non avrebbe senso mantenere l’elettività dei senatori, sottraendo però al Senato il potere di dare o togliere la fiducia al governo. In una moderna democrazia parlamentare di tipo regionale, il bilanciamento del governo si ottiene attraverso un rafforzamento dell’opposizione nella Camera dei Deputati oltre che della rappresentanza dei governi regionali nel Senato. Per questo motivo, in quest’ultimo dovrebbero essere presenti i presidenti delle regioni (o i loro “alternates”) e il voto al suo interno dovrebbe avere un carattere collegiale, non individuale, responsabilizzando le regioni in quanto istituzioni territoriali e non partigiane. Solamente portando nella politica nazionale gli interessi regionali in quanto tali, sarà possibile trasformare gli Emiliano, i Maroni, i De Luca o i Crocetta in leader con una prospettiva nazionale.

Come se non bastasse, i critici della riforma sostengono che quest’ultima consentirà al capo del governo di estendere il proprio controllo anche sulle istituzioni di garanzia, come la Presidenza della Repubblica o il Consiglio Superiore della Magistratura (Csm). È davvero così? La riforma, in realtà, produrrà un esito probabilmente opposto. Il testo oggetto di critica prevede, infatti, che il presidente della Repubblica o i sette membri del Csm di scelta del parlamento vengano eletti con maggioranze così elevate da dare ai leader dell’opposizione un vero e proprio potere di veto sulle candidature proposte dalla maggioranza. Consideriamo l’elezione del presidente della Repubblica. Dopo i primi sei scrutini che prevedono di fatto l’unanimità del collegio dei grandi elettori (costituito da 630 deputati e 100 senatori), dal settimo scrutinio sarà necessaria la maggioranza dei 3/5 del collegio (cioè 438 parlamentari) per eleggere il presidente della Repubblica. Assumendo sempre che Matteo Renzi sarà il futuro presidente del consiglio, per raggiungere quella soglia quest’ultimo dovrà aggiungere almeno un centinaio di grandi elettori (in particolare tra i senatori) alla sua maggioranza di 340 seggi per poter imporre il proprio candidato. Siccome i 100 membri del Senato rappresenteranno sia le maggioranze che le minoranze dei consigli regionali, è tutt’altro che scontato che essi sosterranno in blocco il candidato proposto dal presidente del Consiglio. Non è necessario essere professori di scienza della politica per prevedere che i futuri presidenti della Repubblica, se il testo verrà finalmente approvato, non saranno più scelti dalla maggioranza, come è avvenuto da ultimo con il presidente Sergio Mattarella.

Naturalmente, le preoccupazioni di Eugenio Scalfari o di Michele Ainis sono legittime. Ogni processo di riforma può produrre effetti non previsti di tipo involutivo. Tuttavia, se si guardano le cose per come stanno, la tesi che l’Italia sia minacciata dall’autocrazia è scarsamente plausibile. In realtà la riforma aiuta l’Italia a dotarsi di un sistema istituzionale comparabile con quello delle altre grandi democrazie europee. Come auspicato con costanza e coerenza da Giorgio Napolitano. Sicuramente si potevano trovare altre e migliori soluzioni. Tuttavia, le riforme non emergono dalle discussioni di un seminario accademico, ma dal duro confronto tra interessi politici. Le case si costruiscono con i materiali di cui si dispone. E la casa che sta emergendo è di gran lunga superiore, per equilibrio e tenuta, di quella che dovrà sostituire.

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