Commenti

Il «lato oscuro» di Internet

  • Abbonati
  • Accedi
Scenari

Il «lato oscuro» di Internet

Un immenso spazio di libertà, di informazioni, di comunicazioni, di scambi economici e culturali. È il lato luminoso – e democratico – di Internet. Ma come diceva Goethe, «Dove c’è molta luce, l’ombra è più cupa». E l’ombra di Internet – il suo lato oscuro, criminale – è così densa che si fatica a esplorarla. Eppure, conoscerla è essenziale per evitare censure preventive, acquisire piena consapevolezza delle potenzialità liberatrici della rete, sviluppare una necessaria cultura della responsabilità individuale, sanzionare le condotte criminose.

Se Internet potesse sdraiarsi sul lettino di uno psicanalista, occorrerebbero certamente anni per «entrare in contatto, abbracciare ed esaminare la sua ombra», per dirla con Jung. Ma ciò non toglie che vi sia un ritardo del diritto penale nell’affrontare quella zona oscura, in cui i giuristi navigano a vista, muovendosi sul filo di vuoti normativi e di interpretazioni estensive, tra incertezze e problemi, anche nell’individuazione dei reati. Non tanto di quelli “contro” la rete (i cosiddetti reati informatici, come le frodi), quanto di quelli commessi “all’interno” o “per mezzo” della rete, e che proprio nella rete trovano un ambiente accogliente, favorevole alla loro proliferazione e potenzialità offensiva.

Caos giuridico
La recente approvazione della «Dichiarazione dei diritti in Internet» è un passo importante ma, tanto più, impone di recuperare il ritardo sul versante buio dell’immensa piazza telematica. Sulla rete si diffama, si minaccia, si vìola la privacy delle persone, si rubano identità e beni immateriali, si truffa, si diffondono false informazioni capaci di alterare l’andamento dei mercati, e così via. Un caos, dal punto di vista della repressione penale. Finora, infatti, norme e cultura giuridica si sono concentrate solo sui crimini informatici in senso stretto, introdotti nel 2008 per reprimere le aggressioni e gli accessi illegittimi ai sistemi tecnologici nonché le utilizzazioni indebite delle tecniche di captazione, memorizzazione e trasmissione telematica.

Certo, se Internet è un mondo in continua evoluzione, è difficile disegnare la mappa delle sue zone a rischio. Forse pesa anche la preoccupazione di incidere sulla libertà di espressione – principio cardine della rete – e di aprire la strada a divieti o a forme di oscuramento. Fatto sta, però, che il ritardo è fonte di problemi e di incertezze, che tocca ai magistrati risolvere in attesa che il diritto penale faccia la sua parte.

Aumentano le querele
Agosto. Procura di Roma. «Saliamo al concreto» dice il Procuratore aggiunto Nello Rossi – che coordina sia il pool sui reati finanziari che quello sui crimini informatici – guardando l’ombra di Internet attraverso i casi concreti.

Il primo dato è «il preoccupante aumento» delle querele per diffamazione a mezzo Internet. Il che non porrebbe problemi se bastasse applicare le norme e gli orientamenti sulla diffamazione a mezzo stampa o attraverso altre forme di pubblicità. «Eppure non è proprio così», osserva Rossi. Anzitutto perché giornali, Tv, riviste sono molto diversi dai blog, dai forum, dalle comunicazioni libere su Facebook o dai contatti su Twitter. «Nei media tradizionali c’è un soggetto che controlla e assume la responsabilità, insieme ai giornalisti, per quanto di falso e di lesivo viene scritto sulle persone, mentre sulla rete spesso non c’è traccia di queste figure», spiega. «Inoltre – prosegue – chi per mestiere fa informazione ha una specifica professionalità e perciò verifica, controlla, laddove la rete offre a tutti libertà di espressione ma anche occasione di diffamare...Infine, a differenza di molti dei nuovi canali infomativi presenti sulla rete, i media tradizionali sono normalmente gestiti da imprese economicamente in grado, all’occorrenza, di risarcire i diffamati». Viste queste differenze, il giudice penale talvolta ha rilevato veri e propri vuoti normativi, talaltra ha cercato, in via interpretativa, la soluzione a problemi inediti.

La Cassazione, ad esempio, ha escluso la punibilità dei direttori dei giornali on line e dei coordinatori e gestori dei blog e dei forum, chiamati a rispondere dei messaggi diffamatori presenti sui siti solo se c’è un diretto concorso nel reato di diffamazione, ma non per omesso controllo. Oppure ha escluso la responsabilità penale dei gestori di “Internet point” per le mail diffamatorie inviate dai propri centri. «Da queste e altre pronunce – osserva Rossi – deriva che nell’agorà telematica non agiscono controllori penalmente responsabili dei contenuti delle comunicazioni diffuse per mezzo della rete, ma individui che prendono la parola sotto la propria responsabilità, spesso senza alcun filtro preventivo e all’insegna di un’evidente estemporaneità, per esprimere sensazioni, riflessioni e opinioni, non solo libere ma anche “in libertà”».

Molte archiviazioni
Da questo dato sono partite alcune Procure per individuare «filtri efficaci nonché linee di discrimine ragionevoli tra le più gravi forme di diffamazione a mezzo Internet, da perseguire con fermezza, e il vociare confuso della rete, che invece non merita l’intervento del giudice penale». Significativo è l’alto numero di archiviazioni richieste dai Pm romani. Sulla base di questo ragionamento: fermo restando che la rete è «mezzo di pubblicità» spesso più potente e diffusivo dei media tradizionali e che, quindi, l’immissione di frasi offensive e/o immagini denigratorie è in linea di principio riconducibile al delitto di diffamazione «a mezzo di pubblicità» (articolo 595, comma 3, Cp), bisogna prendere atto che essa è diventata un’immensa piazza telematica e che i messaggi diffusi attraverso blog o forum «sono caratterizzati, agli occhi dei frequentatori, da un’elevata dose di soggettivismo e di relatività, se non di deliberata unilateralità o di assoluta estemporaneità». Il che stempera la loro potenzialità lesiva dell’altrui reputazione, e perciò ne ridimensiona l’offensività.

La diffamazione è soft
Si potrebbe dire, insomma, che sulla rete la diffamazione è... più soft, meno graffiante. «Con Internet – spiega Eugenio Albamonte, Pm romano del pool sui reati informatici – c’è stata un’estensione del diritto di critica: quel che prima si diceva al bar, ora si dice in rete; se prima soltanto editorialisti, premi Nobel, personaggi noti potevano esprimere le loro critiche sui media, ora tutti i cittadini hanno uno strumento per farlo. Inoltre, il linguaggio del cittadino comune va valutato anche alla luce di quello pubblico». Come dire che se il linguaggio politico degenera, non ci si può dolere se il cittadino si esprime per le rime. Senza dimenticare, aggiunge Albamonte, che molte notizie che appaiono sul web rimbalzano nei post di comuni cittadini i quali non hanno l’obbligo – a differenza dei giornalisti – di verificarne l’attendibilità.

«L’enorme mole di messaggi immessi – spiega Rossi – determina, agli occhi degli utenti, una sorta di desensibilizzazione oggettiva dei messaggi stessi, che impone quindi un vaglio particolarmente penetrante al momento di individuarne la reale valenza diffamatoria». Non sono considerati diffamatori, ad esempio, tutti i messaggi che, pur avendo un’astratta potenzialità lesiva della reputazione, hanno un contenuto generico quanto ai fatti; così come i commenti denigratori di chi si copre dietro un nickname, poiché la scelta dell’anonimato riduce, agli occhi dei lettori, la credibilità del messaggio e “azzera” la sua idoneità a ledere la reputazione. Analoghe considerazioni valgono per articoli firmati, “aperti” ai commenti dei lettori che possono dissentire o smentire.

Il carattere transnazionale della rete
Ma sulla rete accade anche altro. Proliferano minacce, gruppi di internauti che si riconoscono in slogan o parole d’ordine a volte solo volgari e demenziali, altre volte pericolosi, deliranti, minatori. Anche in questo caso tocca al magistrato selezionare il penalmente perseguibile, sebbene non sia facile stabilire la “soglia” dell’effettiva valenza minatoria. «Bisogna infatti mettere in conto il carattere transnazionale della rete e il fatto che essa viaggia attraverso Paesi con regimi giuridici diversissimi» osserva Rossi. Ad esempio: i gruppi di Fb, spesso composti da migliaia di navigatori, che nascono con la velocità di un lampo attorno a una parola d’ordine minacciosa, pongono a Pm e polizia giudiziaria problemi giuridici «quasi insormontabili»: la dislocazione all’estero del server, l’assenza in altri Paesi di norme penali equiparabili a quelle italiane, la diversità dei regimi di oscuramento e di cancellazione dei siti, e così via. In questi casi, l’efficacia dell’intervento è affidata soprattutto alla collaborazione tra polizie e all’iniziativa dei gestori del server che, avvertiti di un provvedimento del magistrato italiano, espellono autonomamente il gruppo dal loro ambito. Resta fermo che il giudice, su richiesta del Pm, può sequestrare (in via preventiva) i siti attraverso cui si commettono reati in Italia e ottenerne l’oscuramento sul territorio italiano (si pensi anche all’offerta di servizi finanziari abusivi o ai film pirata).

Il nodo del giudice competente
Nell’ampia gamma dei comportamenti criminosi che viaggiano in rete c’è anche l’aggiotaggio informatico, ossia la manipolazione del mercato (punita dall’articolo 185 del Testo unico finanziario), che grazie alla velocità e alla pervasività della rete può però trovare un terreno particolarmente fertile di esecuzione. La repressione di questo grave reato sconta, tra le varie incertezze, anche quella sull’individuazione del giudice territorialmente competente. Problema comune, peraltro, ai reati di diffamazione via Internet. La Procura di Roma ha sostenuto la competenza del luogo di residenza del diffamato via Internet, in “analogia” a quanto previsto per la diffamazione via radio o Tv; ma la Procura generale della Cassazione l’ha stoppata perché i criteri di determinazione della competenza territoriale sono di «stretta interpretazione», per cui, non essendo individuabile un luogo fisico in cui emerge per la prima volta la notizia diffamatoria, occorre far riferimento ai criteri residuali del Codice: residenza, domicilio o dimora dell’indagato. I pm della capitale si sono adeguati, in attesa di pronunce dei giudici di merito e di Cassazione. E – ma chissà quando – del ddl sulla diffamazione in discussione in Parlamento, che per la diffamazione via Internet stabilisce proprio la competenza del giudice del luogo di residenza del diffamato.

La tutela della privacy
Tornando ai reati, numerose sono le “violazioni del codice della privacy” attuate nella rete, fonte di decisioni innovative e controverse, come quella, notissima, del Tribunale di Milano che ha condannato i dirigenti di Google Italia per violazione del Codice della privacy in seguito all’inserimento sul sito di un filmato su un ragazzo down schernito e irriso, subito rimosso quando Google ne è stata informata. Questo e altri casi analoghi pongono, peraltro, un interrogativo: può sopravvivere la privacy, tradizionalmente intesa, nell’epoca di Internet? O deve rimodellarsi per adeguarsi alla moderna società dell’informazione? «Forse Zuckerberg, l’ormai mitico inventore di Fb, ha ragione quando dice che il concetto di privacy nella società contemporanea è destinato a mutare profondamente – riflette Rossi – ma è un fatto che, nella fase di transizione che stiamo vivendo, convivono, non sempre coerentemente, un’acuta sensibilità per la privacy e l’aspirazione a vivere in una società dell’informazione».

Insomma, se finora la rete è riuscita a passare tra le gocce di pioggia della repressione penale è anche vero che, per garantirne integrità, libertà e responsabilità, dovrà crescere la consapevolezza giuridica del suo lato oscuro.