Tre giorni fa un uomo di 81 anni si è dato fuoco a Seul davanti all’Ambasciata del Giappone per protesta contro quello che riteneva un disconoscimento giapponese delle “donne-conforto” indotte a prostituirsi in favore dei soldati imperiali nell’ultima guerra. Il giorno dopo, l’ex premier Yukio Hatoyama si è inginocchiato durante una visita al carcere di Seul dove furono internati vari attivisti dell’indipendenza coreana. Due eventi che aiutano a comprendere il contesto dell’atteso discorso che il premier Shinzo Abe pronuncerà oggi. A 70 anni dalla fine della guerra, Abe ha una occasione unica per dare al mondo l’immagine di un Giappone che ha fatto i conti con il suo passato e dovrebbe continuare a essere uno Stato-modello come è stato nell’intero dopoguerra, anche se ora intende passare da un pacifismo passivo a uno definito “pro-attivo”, con maggiori responsabilità internazionali anche sul fronte della sicurezza.
Conteranno molto le esatte parole pronunciate. Date le riserve espresse da Abe in passato sulle donne-conforto e sulla definizione legale di “aggressione” nonché la riluttanza a utilizzare la più chiara parola apologetica («owabi»), sarà proprio sulle espressioni linguistiche che si focalizzerà l’attenzione in un discorso la cui importanza è stata enfatizzata con la nomina di una “commissione di esperti” per consigliarlo. Alcuni di questi esperti non hanno reso un buon servizio al loro Paese, imponendo una postilla al report degli advisor in cui si evidenzia il loro dissenso a utilizzare la parola “aggressione” per la politica imperialista degli anni Trenta con argomenti maldestri come il più stretto formalismo giuridico o di non voler indicare il Giappone come aggressore quando anche altri Paesi lo furono. La postilla ha finito per fare più notizia del rapporto stesso, confermando i sospetti di chi è interessato a esagerare con le accuse di risorgente nazionalismo e revisionismo. Abe parlerà al mondo - ed in particolare ai vicini che furono le maggiori vittime del militarismo, Cina e Corea -, non a un rally di sostenitori interni. L’interesse dello Stato e della stessa politica di “normalizzazione” del Paese da lui promossa richiede che esprima inequivocabili parole di scuse, tanto più in un momento che non è solo di anniversario ma di controversa svolta nel settore della Difesa. Per 70 anni nessun giapponese in divisa ha ucciso all’estero né è stato ucciso, ma con l’introduzione della cosiddetta “Difesa collettiva” non è detto che sarà ancora così. La necessità di dissipare sospetti dovrebbe far premio su eventuali riserve mentali. Riconoscere comportamenti oggi inaccettabili non significa gettare fango sull’onore militare, scusarsi da uomo di Stato non vuol dire offendere gli antenati. Le ultime indiscrezioni indicano che Abe andrà oltre le parole usate negli ultimi discorsi. Se lo farà, non rischierà di disperdere il capitale di “goodwill” costruito dal suo Paese negli ultimi 70 anni.
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