Commenti

La riscossa del Sud e gli errori da evitare

  • Abbonati
  • Accedi
tra tagli e sviluppo

La riscossa del Sud e gli errori da evitare

I nostri grandi pensatori e letterati hanno spesso considerato l’Italia un microcosmo che mescola diversità e opposti. Per questo è sempre stato un Paese disuguale sul piano sociale e territoriale. Il suo policentrismo è complesso da governare e amalgamare.

Lo sapeva bene la classe dirigente del dopoguerra, che puntò sul centralismo istituzionale, condiviso anche dal partito di Togliatti. Al tempo, la politica locale era considerata di serie B, una politica “bassa”. Il centralismo di quella classe dirigente portò a casa risultati lusinghieri, ma non sufficienti ad assottigliare il gap tra Nord e Sud. Inoltre, a dispetto dello sviluppo del welfare, il nostro indice Gini (misura della concentrazione del reddito) è rimasto più vicino a quello inglese che a quello tedesco. Le élite politiche nazionali successive naufragarono con Tangentopoli e con un debito pubblico schizzato oltre il 100% del Pil. Il federalismo leghista, con la questione settentrionale, contagiò la politica con l’idea che una maggior autonomia e responsabilità regionali avrebbero contribuito a rinnovare il rapporto logorato tra istituzioni nazionali e cittadini. La prossimità delle istituzioni avrebbe permesso agli elettori-taxpayers di selezionare meglio i politici-amministratori e di controllare l’impiego di risorse pubbliche.

Tutti sappiamo che fine ha fatto il federalismo in salsa italiana. Si è risolto in una crescita autoreferenziale della classe politica che è riuscita a vantare il record di circa 200mila cariche elettive. È stata un’ascesa irresistibile degli scranni in palio sul mercato politico, dovuta al moltiplicarsi di assessori “esterni” e di consiglieri nelle circoscrizioni, nei Comuni, nelle comunità montane, nelle Province e nelle Regioni. I presidenti di Regione sono stati rinominati pomposamente governatori e alcuni leader nazionali si sono “abbassati” volentieri a guidare Regioni e grandi città. Poi la crisi, tra scandali e minacce di default, ha fatto scoppiare la bolla di un federalismo senza solide fondamenta amministrative e fiscali.

Il sogno d’autonomia regionale e sviluppo locale è svanito, cancellato dal risveglio nella crisi. Del federalismo lasciato in sospensione, a mezz’aria, ai cittadini non resta che la duplicazione dell’imposizione fiscale, nazionale e locale (incluse le redivive province). La tassazione che corre sul doppio binario nazionale e locale è stata fin qui una gamba dell’austerità. Ogni amministrazione del governo “multilivello” (riforma del Titolo V), non solo solleva un ginepraio di competenze e autorizzazioni, ma contribuisce a un aumento record della pressione fiscale complessiva su cittadini e imprese, in barba alla progressività della tassazione (si veda il servizio nel giornale). Ne fanno le spese due questioni sociali nazionali: il ceto medio, che perde reddito disponibile dopo le imposte locali e paga servizi di welfare sempre più avari; il Mezzogiorno, che vede salire l’incidenza della tassazione locale non per maggiori investimenti (anzi precipitati, Svimez 2015) né per migliorare i servizi, ma per tamponare le falle della finanza pubblica locale. È l’austerità asimmetrica che colpisce gangli sociali e territoriali terribilmente delicati o deboli. In particolare il Mezzogiorno, al suo settimo anno di Pil negativo, ha acceso in questi giorni un deja vu, con l’immagine di un Sud che sprofonda, dimenticato, in ginocchio, imploso come la Grecia nel “sottosviluppo permanente”. In realtà, si è indebolito l’intero paese, a comparazione degli altri europei. Anche le nostre punte di diamante come Lombardia, Veneto ed Emila hanno perso posizioni nella classifica europea del Pil pro-capite regionale. Questo declino rivela che le responsabilità sono delle classi politiche locali (figlie di una selezione “avversa”) ma anche di quelle nazionali, incapaci di coordinare un federalismo fiscale coerente.

Tuttavia, alla resa dei conti, non c’è niente di peggio del lamento e della recriminazione, ideali conduttori di rassegnazione: meglio considerare i “luoghi” positivi per riacquistare speranza e fiducia. Nonostante i ceti medi siano presi di mira dalle imposte come gli gnu dai leoni nella savana, le famiglie italiane sono meno preoccupate della loro situazione finanziaria che negli altri grandi Paesi europei. Il Mezzogiorno ha risorse per imbastire una riscossa, a partire dai luoghi produttivi di qualità che si sono sviluppati negli ultimi vent’anni. Certo, occorrerebbero classi dirigenti locali in grado di restituire efficienza a macchine amministrative regionali in panne, di recuperare i ritardi nella programmazione dei fondi europei 2014-2020 e di attrarre investimenti pubblici e privati. Anche le classi dirigenti nazionali devono fare la loro parte con un “tagliando” al governo multilivello e con misure riguardanti sia il credito d’imposta per investimenti di qualità sia il credito alle imprese al Sud. Nessuno chiede assistenzialismo, ma logistica e infrastrutture sì. La posta in gioco è la crescita e lo sviluppo del Sud nell’ambito di una generale riscossa del paese. Don Sturzo sosteneva che il successo del Nord non può fare a meno di un Sud sviluppato e che i meridionali devono «comprendere che è loro interesse organizzarsi, prendere iniziative e assumere responsabilità». È perciò necessario cambiare insieme il Mezzogiorno, prima che si trasformi in un punto cieco nazionale senza ritorno.

© Riproduzione riservata