Commenti

La crisi non uccide il Dragone

  • Abbonati
  • Accedi
Mercati

La crisi non uccide il Dragone

Il mese di agosto non è mai stato di riposo per la finanza. Nel solleone del 2007 cominciarono a snodarsi i tentacoli di quella crisi finanziaria che avrebbe poi portato alla Grande recessione. Nell'agosto del 2011 le Borse crollarono, dall'America all'Europa all'Asia, sotto il timore dell'aggravarsi della crisi da debiti sovrani nel Vecchio continente. E l'agosto del 2015?

Oggi le ansie hanno a che fare con i Paesi emergenti. Dato che ormai, nella torta dell'economia mondiale, la loro fetta ha superato quella dei Paesi emersi, è normale preoccuparsi: il rallentamento dei primi non è una buona notizia neanche per i secondi. Ma cosa c'è dietro questo rallentamento?

La prima cosa da osservare è che, a differenza del 2011, quando le ansie per la crisi in Europa erano intense e fondate, i problemi degli emergenti sono oggi più variegati e, osiamo dire, meno pesanti. Cominciamo da quella che è ormai la più grande economia del mondo: la Cina ha riconquistato dal 2014 quell'alloro che aveva perso dopo il Seicento. Ebbene, la Cina sta rallentando, il che vuol dire che, invece di crescere al 10% l'anno sta crescendo al 7% e potrebbe scendere (orrore!) anche al 5 per cento. L'economia cinese conosce una fase di transizione, quando quote di investimento (sul Pil) del 50% - spese che odorano di rischi di sovracapacità produttiva – stanno scendendo per lasciare il posto a quote maggiori di consumi privati e di trasferimenti pubblici. La transizione sta anche – e più visibilmente – nella finanza: l'impennata della Borsa cinese in un mercato finanziario ancora immaturo è stata seguita da una forte correzione (che lascia però alla Borsa di Shanghai il primato del progresso sull'anno: + 52%, pur dopo la correzione a oggi).

Anche in campo valutario la transizione è agitata: la svalutazione dello yuan, che ha fatto gridare alla “guerra delle valute”, è stata inattesa e concentrata nel tempo. Ma, a guardare le cose con distacco, rappresenta solo una comprensibile reazione a un massiccio apprezzamento della moneta cinese. Dall'inizio (metà 2007) della crisi a oggi lo yuan aveva registrato un apprezzamento reale del 45% circa: a oggi la correzione porta questo apprezzamento al 40 per cento. La Cina si era, insomma, meritoriamente assunta il compito di correggere gli squilibri mondiali negli scambi, e l'avanzo corrente era così sceso dal 10% del 2007 al 2% del 2014.

Di per sé, i timori e i tremori dei mercati sulla Cina non sono tanto giustificati dagli squilibri finanziari o reali dell'economia, quanto dall'impressione che i dirigenti cinesi, poco esperti nell'arte e nella scienza dei mercati finanziari, non siano in grado di gestire valuta e moneta. Questo giudizio, tuttavia, dimentica che le leve di controllo sono salde, e che i gradi di libertà – sia per la politica monetaria che per quella di bilancio – sono molto più ampi rispetto a quelli di molti Paesi occidentali.

Un altro timore sta in una nuova edizione del taper tantrum: quel “capriccio da assottigliamento” (difficile trovare una traduzione meno goffa) descrisse, due anni fa, la decisione della Fed di assottigliare gli acquisti mensili di bond che, in un quadro di espansione quantitativa della moneta, aveva condotto fino ad allora per sostenere l'economia. Questa decisione condusse a improvvidi aumenti dei rendimenti in giro per il mondo e a un ritiro (o minore afflusso) di capitali dai Paesi emergenti. Ora la Fed sta preparando un altro passo restrittivo (tecnicamente: meno espansivo) della politica monetaria, e il tasso-guida dei Federal Funds potrebbe passare da zero a 0,25% (orrore!) già a fine anno. I mercati, assuefatti da anni al basso prezzo del danaro, preparano un altro 'tantrum', come mocciosi a cui si toglie il balocco preferito. L'ex Governatore della Bank of England, Mervyn King, disse un giorno che «l'obiettivo delle Banche centrali dovrebbe essere quello di rendere la politica monetaria il più noiosa possibile». Purtroppo, attualmente la politica monetaria è tutt'altro che noiosa.

Poi c'è la questione delle materie prime, a cominciare dal petrolio. Lo sgretolamento del prezzo dell'oro nero sta raggiungendo il punto in cui gli svantaggi superano i vantaggi. Il petrolio meno caro porta a benefici diffusi (per famiglie e imprese consumatrici) e a malefici concentrati (per Paesi produttori e società petrolifere). E chi sta peggio protesta di più di chi sta meglio. In aggiunta, non vale più il fatto che, date le differenze nelle propensioni alla spesa di Paesi consumatori e produttori, una diminuzione del prezzo del petrolio è benefica per l'economia mondiale. Oggi questo si prospetta come un gioco a somma zero.

Fortunatamente, non tutte le notizie sono negative per gli emergenti. In India l'economia accelera. Il “Warren Buffett” indiano, Rakesh Jhunjhunwala, ha detto che «la crescita viene dal caos, non dall'ordine» e che, anche se le preoccupazioni di un rallentamento sono reali, «bisogna aver fiducia che queste vicende passeranno». Unitamente al fatto che la crescita americana si conferma e che l'Europa arranca meno di prima, è poco probabile che i malumori dell'economia finanziaria, in questo agosto turbolento, vadano a tracimare, come successe nel 2007 e nel 2011, nell'economia reale.
fabrizio@bigpond.net.au

© Riproduzione riservata