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L’amaro risveglio dei listini

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la correzione d’agosto

L’amaro risveglio dei listini

Niente più di un grande crollo di Borsa è in grado di spaventare l’opinione pubblica mondiale, i risparmiatori e i policymaker. Non perché la Borsa rappresenti l’indice della salute (o dei problemi) di un sistema economico e finanziario: già in più occasioni in passato, la Borsa ha accelerato il passo pur priva di fondamentali economici a sostenerne la corsa.

O al contrario, è caduta o rimasta ai minimi pur avendo alle spalle economie in salute o comunque in ripresa. Se la Borsa fa paura, e la drammatica giornata di ieri lo dimostra, è perché appesi al valore delle azioni e degli asset finanziari ci sono risparmi e pensioni per migliaia di miliardi di euro e di dollari, ci sono i prestiti che le imprese hanno ottenuto dalle banche mettendo a garanzia e collaterale i propri titoli, ci sono i guadagni grandi e piccoli di chi ha compensato la stagnazione delle proprie rendite immobiliari e dei propri redditi da lavoro con l’effetto moltiplicatore di ricchezza creato da un mercato azionario che salendo troppo e troppo a lungo ha dato (a troppi) l’impressione di poter sfidare le leggi della fisica. È per questo che il crollo delle Borse a cui abbiamo assistito ieri ha spaventato tanto e tutti: è il primo crollo globale nell’era della globalizzazione. Ed è anche il primo ad essere avvenuto senza «cabine di regia» politiche a rassicurare l’opinione pubblica e i risparmiatori, o senza reti di protezione monetaria a dare conforto e sostegno agli investitori e alle banche.

La franata globale dei mercati registrata ieri sembra aver colto tutti di sorpresa, ma il vero fatto sorprendente è che nessuno si sia preoccupato finora di mettere in guardia o proteggere i mercati da questo rischio. Silenzio generale. Un silenzio assordante, rotto solo dagli allarmi lanciati qua e là una volta dal Fondo monetario l’altra dalla Fed o dalla Bundesbank, ma su cui nessuno ha davvero interferito: non i governi europei, che risolta la questione della Grecia hanno frettolosamente creduto di poter usare lo scudo di Draghi per proteggere l’Eurozona anche dalla crisi di Pechino; ma neppure dal governo americano, che con le elezioni politiche ormai all’orizzonte si è preoccupato di più dei propri tassi e di bastonare la Russia che di chiedere conto a Pechino del passo delle proprie riforme, economiche e politiche. Così, nel silenzio generale, l’unica voce che arrivava in Borsa è stata quella del denaro facile: allentamenti quantitativi e tassi a zero hanno assecondato non solo la voglia di rischio, ma anche l’accondiscendenza nei confronti dei ritardi sulle riforme economiche e sociali promesse per anni dai governi dei Paesi emergenti. Ai mercati è arrivato così un messaggio distorto, palesemente contrario a quello che era stato detto per la crisi del debito in Europa: la stazza delle economie emergenti è tale da rendere sicuro l’investimento nei loro mercati anche in assenza di riforme strutturali. E se qualcuno aveva dubbi, ecco la risposta che aveva: finché i fondi sovrani comprano aziende e azioni in Borsa, l’Occidente non ha nulla da temere dal rallentamento dell’economia cinese e dai rischi potenziali sui Paesi vicini e lontani. Risultato: la Borsa cinese, pur con l’economia in rallentamento, ha continuato a salire alle stelle trainando i listini asiatici e occidentali, che così facendo hanno decretato la propria dipendenze dai capitali e dalle sorti della scommessa asiatica. Oggi la prudenza è tornata di moda, ma fino a ieri l’indice-guida Standard & Poor’s non subiva da ben 46 mesi (!) una correzione del 10%, un fenomeno che si è verificato solo altre due volte nella storia di Wall Street e che ha poi sempre portato a crolli prolungati. Indici, azioni, materie prime: tutti gli asset si sono gonfiati in una bolla della liquidità che sembrava infinita.

In questo contesto, cercare analogie o convergenze tra il crollo storico di ieri e altri del passato rischia di essere un esercizio inutile. Qui non si tratta più di giustificare una correzione degli indici usando le vecchie equazioni di Wall Street - crisi settoriali, profitti, rallentamento americano, riforme, recessione europea, collasso delle banche e dei circuiti finanziari, tensioni geopolitiche - ma di affrontare e placare una reazione scomposta dei mercati a un risveglio amaro che non riguarda solo loro. Il mercato, crollando, ha suonato la campana a chi pensava che avere in Cina più giocatori di Borsa che tessere del Partito fosse il miglior risultato delle riforme, non il lato peggiore e più rischioso di una trasformazione socio-economica distorta e incompleta.

Gli oltre 5.000 miliardi di liquidità bruciati sui mercati dall’11 agosto, giorno della prima svalutazione decisa da Pechino, rappresentano solo la presa d’atto di questa situazione. È bene tenere presente che una correzione dettata da eccessi è a volte salutare, ma un crollo dettato da sfiducia è molto difficile da curare. Come avvenne per la Russia nel dicembre scorso, quando i tentennamenti della banca centrale di Mosca a tagliare i tassi avviarono la peggiore fuga di capitali dalla caduta del muro di Berlino, così oggi le stesse incertezze delle autorità monetarie e politiche cinesi stanno creando il presupposto di una crisi finanziaria lunga e dolorosa. La Russia, colpa soprattutto della rigidità ideologica di Putin a un vero processo di cambiamento, si è poi avvitata in se stessa, finendo addirittura in stato di quasi-guerra (Ucraina) e sotto embargo internazionale. Con la Cina sarebbe grave e ben più pericoloso correre lo stesso rischio. Globalizzazione, è bene ricordarlo, significa anche interdipendenza nei momenti di crisi: nella crisi cinese, invece, i governi occidentali hanno evitato accuratamente di criticare Pechino per i suoi ritardi nelle riforme economiche e sociali, mentre le banche centrali - così veloci nel coordinarsi quando si è trattato di stabilizzare valute come lo yen o la sterlina - sono rimaste del tutto assenti dal palcoscenico. Spezzare questa spirale negativa, insomma, non può essere solo il compito di Pechino: è ora che le grandi potenze occidentali guardino oltre la stabilità dei propri sistemi finanziari nazionali, creando le condizioni per uno sviluppo economico globale, in grado di permettere all’Occidente di avere meno dipendenza dalla crescita e dai capitali emergenti, e ai Paesi emergenti di modernizzarsi e crescere senza restare da soli nei momenti difficili.

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