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Sugli States aleggia l’incognita produttività

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aspettando le mosse della fed

Sugli States aleggia l’incognita produttività

Con la pubblicazione questa settimana dei verbali che confermano le attese di un rialzo dei tassi, forse già per settembre, laa Fed si affanna a sottolineare che qualsiasi decisione definitiva dipenderà dai dati macroeconomici.

Ma mentre nella Fed si discute di dipendenza dai dati, nell’aria aleggia una certa ironia. In un angolo del mondo dei dati – la produttività – il quadro è così gramo che è difficile capire come si possa dipendere da cifre del genere. E se quell’incertezza di dati non ha attirato l’attenzione, il mistero potrebbe rendere più complessa l’azione della Fed. Per capire la questione, date un’occhiata ad alcuni dati che ha assemblato Alan Blinder, professore di economia a Princeton ed ex-vicepresidente della Fed. Blinder calcola che nel periodo 1995-2010, la produttività americana sia cresciuta in media del 2,6% l’anno. Questo significa che il potenziale trend di crescita era intorno al 3%. Tuttavia, dal 2010, l’aumento della produttività media globale è precipitato a un misero 0,65%. Nell’ultimo anno, la produttività del settore privato, agricoltura esclusa, è aumentata di un magro 0,3% secondo i dati trimestrali. La cosa è peculiare. Da una parte, il trend va contro l’idea generale secondo cui il mondo occidentale starebbe attraversando un boom tecnologico. Dopotutto, la rivoluzione di internet ci ha portato telefoni cellulari con il potere computazionale dei missili degli anni Settanta, mentre analisti come quelli della scuola di Oxford Martin dicono che il processo di digitalizzazione è talmente incalzante che nel giro di vent’anni sostituirà la metà dei posti di lavoro in America. Ad aumentare l’alone di mistero è il fatto che la stessa Fed dia un’interpretazione molto diversa della produttività. Le recenti proiezioni dei membri del direttivo, per esempio, suggeriscono che la crescita del potenziale trend dell’economia sia intorno al 2,15% e ciò significa un aumento della produttività dell’1,75% circa. Se i verbali divulgati questa settimana rivelano che recentemente la Fed ha «ridotto i tassi previsti degli incrementi di produttività e di potenziale aumento della produzione», non è affatto chiara l’entità della “riduzione” o perché i numeri della Fed siano così discrepanti dalle statistiche. «La Fed non ha idea di quale sarà l’andamento del tasso di crescita della produttività», conclude Blinder, «esattamente come tutti quanti».

Una spiegazione può essere che le statistiche non riescono a stare al passo con i trend tecnologici. Un altro problema possibile è che il boom del credito degli ultimi dieci anni abbia fatto sembrare la finanza più produttiva di quanto non fosse realmente prima del 2007. Un altro fattore è che ultimamente l’investimento delle imprese si è indebolito, mentre c’è un divario sempre maggiore nelle competenze della forza lavoro americana che porterebbe a una minore produttività. Poi, c’è un’altra questione correlata, ancora più interessante: il ritardo tecnologico. Come fa notare Blinder, se si considerano i dati della produttività in un contesto più ampio, ci sono altri due punti importanti: primo, l’America non è l’unico Paese in cui c’è stato un calo di produttività. Secondo, non è la prima volta che si è verificata una tale oscillazione: negli anni Settanta e Ottanta c’era stato un altro rallentamento dopo un boom, sarà una coincidenza, ma la cosa che colpisce degli anni Settanta è che segnò l’inizio dell’era dei computer. E se la logica suggerisce che l’innovazione dovrebbe incrementare la produttività, il problema con le nuove tecnologie è che le imprese ci impiegano un po’ ad adeguarvisi. Così, proprio come ci sono voluti vent’anni perché i computer facessero aumentare la produttività, può volerci del tempo prima che gli smartphone diano veramente ossigeno all’economia. Se quella teoria è corretta, si deduce che quei dati della produttività aumenteranno in modo netto. Il problema è che potrebbero volerci diversi anni. Fino ad allora, è meglio continuare a tenerli d’occhio, se non altro perché dimostrano che quella delle banche centrali è un’arte e non una scienza, soprattutto quando viene il momento di invertire la rotta.

(Traduzione di Francesca Novajra)

© THE FINANCIAL TIMES, 2015

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