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Profughi nei Balcani, non abbiamo imparato niente dalla storia

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emergenza immigrati

Profughi nei Balcani, non abbiamo imparato niente dalla storia

I profughi marciano con la morte addosso anche da vivi, anche quando gridano e si ribellano bussando alla nostra porta, sfondando i muri fisici e mentali che vorrebbero dividere noi da loro. I profughi arrivano già morti, soffocati sull’autostrada delle vacanze nel cassone di un camion che appare un barcone affondato nel cuore dell’Europa, leggermente inclinato verso il guardrail come un relitto arenato in mare. La rotta balcanica è arrivata adesso in prima pagina ma questa via di fuga c’è sempre stata, solo che oggi è percorsa da siriani, iracheni, afghani, espulsi da nuove e vecchie guerre. Lo sanno bene coloro che hanno partecipato ieri al vertice di Vienna tra l’Unione europea e i Paesi balcanici.

Quando cominciò nel ’92 la guerra di Bosnia arrivarono in Europa 700mila profughi. Poi toccò a 200mila serbi abbandonare la Krajina ai confini della Croazia. Quindi nel ’99 fu la volta dei kosovari, cacciati dalla Vojska di Milosevic: in pochi giorni ne arrivarono 800mila in Macedonia, a Blace, per morire davanti ai nostri occhi prima che affluissero gli aiuti internazionali. L’odore della morte, del disfacimento di un popolo, si sentiva a un chilometro di distanza. Oggi risentiamo quell’odore.

Belgrado e Skopje hanno chiesto un piano d’azione all’Unione europea per rispondere all’emergenza. «A meno che non ci sia una risposta europea a questa crisi, nessuno si deve illudere che possa essere risolta», ha detto il ministro degli Esteri macedone, Nikola Poposki, intervenendo al summit di Vienna. Sia i macedoni che i serbi sanno bene di che cosa si sta parlando, lo hanno sperimentato sulla loro pelle e su quella degli altri.

Nei Balcani si marciava ogni giorno con i profughi, tra villaggi fantasma, sgretolati dalle granate, con uomini, donne, vecchi e bambini, vittime dei bombardamenti e della pulizia etnica: a Srebrenica il generale serbo Ratko Mladic in un calda estate di vent’anni fa ne uccise 8mila seppellendoli in fosse comuni da cui ancora oggi affiorano le ossa. Allora non potevamo, impotenti, fare altro che raccontare le loro storie, raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti mentre uscivano stremati da sentieri impervi, così come abbiamo sempre fatto in Kurdistan, Medio Oriente, Africa.

Le guerre ora sono arrivate qui, dentro casa, trascinando nuove ondate di rifugiati vittime in gran parte dei conflitti e della destabilizzazione che circondano l’Europa e il Mediterraneo. L’emergenza è così preoccupante che si mobilitano gli eserciti. Il partito del premier ungherese Viktor Orban intende chiedere al Parlamento l’invio delle forze armate per bloccare l’enorme flusso migratorio. Non ci vuole un esperto per capire che queste ondate si spiegano con l’obiettivo dei migranti di raggiungere l’Ungheria prima del completamento della barriera “difensiva” previsto entro la fine di agosto.

L’Europa era il continente del Muro, oggi è quello dei muri, e se prima dell’89 la divisione era quella ideologica le fratture attuali sono figlie della paura dell’altro. Le migrazioni, che incrociano una lunga crisi economica, stanno mettendo in forse l’idea stessa di Europa che non regge la prova del migrante. Sotto la maschera lacerata dalle ondate migratorie affiorano le mille identità, nazionali e locali, del continente selvaggio che già abbiamo conosciuto ampiamente durante il tragico decennio delle guerre balcaniche.

Ma i Balcani non hanno insegnato nulla. I nuovi Balcani li avevamo nel Levante, in Medio Oriente, sulla sponda Sud e nell’Africa sub-sahariana. Non li abbiamo riconosciuti e li abbiamo respinti con l’orgoglio di chi pensa di essere un modello di convivenza e di tolleranza.

E c’è anche di peggio. Un’ipocrisia imperante che nasconde le vere radici di questa crisi migratoria. La causa principale è nel caos e nella destabilizzazione che gli Stati Uniti e l’Europa hanno contribuito a provocare in Libia, Siria, Iraq, Yemen e Somalia. Assistiamo a una discussione su come “gestire” i barconi che attraversano il Mediterraneo come se la Libia fosse un Paese imploso appena ieri e senza nessuna ragione apparente, come se nel 2011 non ci fosse stato l’intervento iniziato dalla Francia, dagli Usa, dalla Gran Bretagna e poi della stessa Nato su mandato dell’Onu. Lo stesso vale per la Siria: dopo la campagna condotta dagli Stati Uniti e dai loro alleati sunniti per rovesciare Bashar Assad, facilitando l’avvento dell’Isis nella regione, adesso si fa marcia indietro ma intanto si è arrivati all’incredibile cifra di 10-12 milioni di persone tra sfollati interni e rifugiati all’estero. Oltre sul cosa fare per gestire la crisi umanitaria, bisognerà anche pensare come fermare il caos e le guerre che la stessa Europa ha alimentato.

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