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Al cinema con Bill Clinton: «Attenti a Trump»

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a colloquio con l’ex presidente usa

Al cinema con Bill Clinton: «Attenti a Trump»

L’estate americana è stata dominata dall’imprevedibile Donald Trump. Un’estate calda, con sviluppi storici dall’accordo sull’Iran alla riapertura dell’ambasciata a Cuba. Ma è sulla politica interna, sul futuro della presidenza e appunto sul fenomeno di rottura Trump che si dibatte con frenesia, attenzione e, diciamolo, con una certa sorpresa. Lo riconosce anche l’ex presidente Bill Clinton, magrissimo, forma perfetta, capelli bianchissimi, la voce un po’ rauca e strascicata di sempre, felpa blu su un paio di jeans.

Lo incontro a un evento privato e con poche persone, ma affollato di celebrità - Paul McCartney, Bruce Springsteen, Bruce Willis, Bill Murray, Bon Jovy, Jimmy Buffett, Rudy Giuliani - anche loro qui a godersi agli Hamptons quest’ultimo squarcio estivo che si chiuderà il prossimo fine settimana con il Labor Day.

«Sarebbe un errore sottovalutare Trump - mi dice Clinton - ha trovato la chiave per stimolare il nervo scoperto in una buona parte dell’opinione pubblica, parla chiaro e in modo diretto. Ha preso i suoi compagni repubblicani in contropiede, ha rimescolato le carte e pone per noi democratici un problema non immediato ma molto importante: il suo effetto traino potrebbe essere fortissimo». Coinvolgo Rudy Giuliani, “seearsucker” celeste, cravatta blu, appena dietro di noi con la moglie Judith. I due, Bill e Rudy, agli estremi opposti sul piano politico, si abbracciano: «Sono d’accordo con il Presidente – dice Giuliani – Trump è qualcosa di più di un semplice fenomeno mediatico, non basta la qualità dell’intrattenitore, ci vuole un pubblico pronto ad ascoltarti e lui l’ha trovato. Conferma la disillusione con Washington, con il vecchio modo di fare politica». Ma riuscirà a farcela? Riuscirà Donald Trump a vincere la nomination repubblicana? «Non credo - dice sicuro Giuliani - ma sarà un osso duro come dimostrano i sondaggi. Per il resto al partito non conviene, rischia di essere troppo divisivo sul piano nazionale. E le elezioni si vincono a novembre non alle primarie». Bill Clinotn la pensa diversamente, forse anche per la sua esperienza personale quando nel 2008 sua moglie Hillary favorita assoluta fu sconfitta dallo sconosciuto Barack Obama: «Potrebbe anche farcela - mi dice Clinton - Come sappiamo nelle primarie tutto è possibile, le cose cambiano rapidamente. Il mio quadro di fondo resta però invariato. Credo che alla fine fra i repubblicani prevarrà Bush».

Rudy saluta. Si apparta in un tavolo d’angolo del Blue Parrot, un ristorante ritrovo messicano a Easthampton dove questo gruppo irripetibile di celebrità trasversali è venuto su invito di Jane e Jimmy Buffett a bere marguaritas, a ingurgitare sandwich di aragosta, guacamole e quesadillias da acquolina in bocca. L’occasione per il “mingle” è l’anteprima mondiale di “Rock the Kasbah” un film con Bill Murray, Bruce Willis e Kate Hudson diretto da Barry Levinson che uscirà nelle sale il 23 ottobre. Il film narra di un agente musicale squattrinato e sfaccendato a Los Angeles (Bill Murray) che si reca in Afghanistan per portare una sua amica/cliente in concerto per i militari americani a Kabul e tra mille avvenute scopre una talentuosa e affascinante ragazza pashtun dalla voce bellissima. Per questo l’altra sera, venerdì, c’erano Bill Murray e Bruce Willis. E per questo, con la scusa di movimentare una pigra serata estiva, le star in vacanza incluso Bill Clinton hanno risposto tutte all’appello.

Ed è con lui, disponibile, concentrato, lucidissimo a poche settimane dal suo appuntamento annuale della Clinton Initiative a New York che continuo la mia conversazione sulle elezioni americane. Hillary è anche lei nei paraggi, ma non è venuta al Blue Parrott. Si sta preparando a una raccolta fondi che farà questa mattina, domenica, nella bellissima casa di Tory Burch, la grande designer di moda su Oxpasture Road a Southampton. Per Hillary il momento è difficile, per le dinamiche in campo repubblicano, che raccolgono, anche grazie a Trump, tutte le attenzioni del grande pubblico; e per le inchieste sul server privato che ha usato per inviare e ricevere email riservate. L’ex presidente americano non vuole entrare nel dettaglio della “sua” corsa, quella di Hillary appunto, si limita a dire che gli scandali sulle email sono una turbolenza politica che presto sarà archiviata, che il suo unico vero concorrente di adesso, il senatore Bernie Sanders, è troppo a sinistra. Ma quando gli chiediamo che succederà se nella corsa entrerà il vicepresidente Joe Biden mi dice: «Non so se il vicepresidente Biden entrerà in corsa. Ma so che Biden ha passato dei momenti terribili. Per noi non cambierà molto, Biden può decidere quello che preferisce, non cambierà la nostra rotta politica. E lo dico sinceramente: è un uomo a cui voglio molto bene». Un modo elegante per dire che se Biden deciderà di entrare lo farà anche per impulsività emotiva dopo la morte del figlio, ma che le sue chance di vittoria alla nomination sono molto limitate. Torno al campo repubblicano e chiedo a Clinton di spiegare perché secondo lui alla fine vincerà Bush: «In effetti - mi dice - fra i repubblicani ci sono alcuni talenti che possono emergere per la nomination. Marco Rubio (il senatore della Florida, ndr) ad esempio, è fresco, giovane, energico, ha sicuramente le qualità per poter uscire dal gruppo ed affermarsi, ma ha poca esperienza. John Kasich (il governatore dell’Ohio, ndr) ha molte qualità, è un candidato forte anche lui, ma ha un problema di cui non si parla molto e che la base potrebbe non perdonargli: ha accettato gli aiuti federali per il Medicaid, (l’assistenza sanitaria agli anziani), parte dell’Obamacare, altri governatori quegli aiuti li hanno respinti». Per questo alla fine Clinton immagina, con la prospettiva di oggi, un Bush determinato e pacato che si imporrà sugli altri. Tornando a Trump, non crede che in mancanza di una vittoria correrà come indipendente. Quando ha usato il termine “effetto traino”, Clinton intedeva dire che Trump potrebbe essere di grande utilità al vincitore della nomination repubblicana mobilitando e contribuendo la sua base alla corsa finale: «Abbiamo calcolato che almeno 25 milioni di elettori sono sensibili al suo messaggio, si tratta di un seguito enorme che potrebbe fare la differenza nella corsa democratica». Ovvio che se Trump correrà come indipendente per i repubblicani vi sarà invece un danno enorme.

Cerco di parlare di politica anche con le altre star di questa serata americana di fine estate ma dopo alcuni marguaritas, la conversazione slitta sul leggero. Bruce Willis, con la bellissima moglie Emma Heming, è simpatico, sorridente ,mi dice che ha lasciato il cast del prossimo film di Woody Allen per un conflitto di date dovuto a un suo prossimo impegno a Broadway. Bruce Springsteen, jeans e camicione a quadri è schivo, fa una risatina nervosa quando gli parlo di Trump, non vuole addentrarsi in politica, dice che si sa che lui è un democratico e che questo dovrebbe bastare: «Ma posso dirle che sono qui per passare un paio di giorni con mia figlia. È estate. È venuta a fare un servizio fotografico proprio qui, dove in estate tutto è meraviglioso e sono venuto anch’io. Sapevo che avrei anche trovato degli amici». Fra questi Paul McCartney, che viene ogni anno a passare alcune settimane sull’East End americano. Fa yoga, lunghe passeggiate sulle spiaggie deserte davanti all’Atlantico. Lui e Springsteen sono quasi sempre vicini. Dalla dinamica fra loro sembra che il “boss” sia lui: McCartney è reattivo, spiritoso, fa battute a raffica, l’ultima è la più cattiva, dopo che Bill Clinton è venuto ad abbracciarli: «Non so chi di noi abbia più bisogno di pubblicità» dice nell'orecchio a Springsteen, che ride di nuovo nervosamente. Chiedo a McCartney quale sia il suo album preferito fra quelli dei Beatles: «Non posso dire, molti sono di epoche diverse ed è come se tutti fossero dei miei bambini, difficile scegliere, ma se devo scegliere le dico “Rubber Soul”, per noi fu un album di svolta». In effetti è un album straordinario, esprime una grande evoluzione sia musicale che nei testi per il gruppo più celebre al mondo. Un album che fu anche un omaggio all’America: i Beatles erano appena tornati dal tour estivo americano, l’estate del 1965, esattamente 50 anni fa, quando si misero al lavoro. Da Michelle a Girls a My Life a Drive My Car a Norwigian Girls si trovano sparsi richiami al soul afroamericano, a Bod Dylan, ai Byrds, persino ai Beach Boys. McCartney ricorda bene l’estate di 50 anni fa, un’estate difficile: l’America intensificava i bombardamenti in Vietnam, la morte di Winston Churchill riportava le grandi emozioni della Seconda Guerra Mondiale, in Algeria veniva deposto Boumedien, la Guerra Fredda era al suo apice, in America c’erano i tragici incidenti di Selma. Oggi estate americana del 2015, il mondo è ancora più complesso, difficile, brutale di allora. E passando dalla spensieratezza di una serata al Blue Parrott alla realtà del giorno per giorno che attende l’America dopo il 7 settembre, Labor Day, per la tranquillità di tutti c’è solo da augurarsi che non sia l’ingombrante, incongruo e dirompente Donald Trump a vincere la Casa Bianca nel 2016.

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