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Dove comandano i «caporali»

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AGRICOLTURA

Dove comandano i «caporali»

sono almeno 150mila gli italiani che nel settore agricolo oggi vivono le stesse situazioni di vulnerabilità e sfruttamento degli stranieri quanto a condizioni di lavoro. Ad anticipare questa stima è Francesco Carchedi, docente all’Università di Roma “La Sapienza” presso la facoltà di Sociologia e coordinatore scientifico dell’Osservatorio “Placido Rizzotto” Flai-Cgil. «Per anni – afferma Carchedi – si è dato per scontato che gli italiani fossero meno vulnerabili o comunque più capaci di difendersi. Oggi sta emergendo che non è così. I lavoratori dipendenti in agricoltura sono circa 1,3 milioni, di questi un quarto sono stranieri. Altre 400-500mila sono le persone che lavorano in nero. Gli italiani sono circa un milione, una parte di loro però non è messa in regola in modo trasparente».

L’Italia si conferma così terra di agricoltura e caporali. E non solo al Sud,ma in quasi tutte le regioni italiane. Un sistema, quello della chiamata attraverso il caporale, che nel nostro Paese ha radici antichissime e oggi, come scrive la Flai Cgil nel II rapporto sulle Agromafie, vede «non meno di 400mila (di cui più dell’80% stranieri) potenziali lavoratori in agricoltura che rischiano di confrontarsi ogni giorno con il caporalato, per loro unico strumento per entrare nel mercato del lavoro (seppur nero)». Con un danno per le casse dello Stato che, sempre secondo le stime Flai Cgil, ogni anno si aggira attorno ai nove miliardi di euro (600 invece i milioni non dichiarati sul fronte contributivo).

«L’illegalità – aggiunge Carchedi – riguarda almeno il 10% degli imprenditori agricoli a livello nazionale e quindi, di riflesso, i braccianti. Si tratta spesso di grandi aziende che sfruttano i lavoratori e dettano i criteri della concorrenza, viziando il mercato». In Puglia, anticipano ancora dalla Flai-Cgil, sono stati individuati venti grandi imprenditori che mettono in atto uno «stile manageriale predatorio», altri quattro o cinque nella zona di Latina, due nella Sernide, nel mantovano.

Secondo quanto emerge dalle recenti rilevazioni fatte dalla Caritas italiana, all’interno del “progetto Presidio” attivo in diverse “tendopoli” di lavoratori stranieri, e dall’Osservatorio della Flai Cgil, i cosiddetti “ghetti” sono sparsi in tutto il Paese, da Nord a Sud, senza distinzioni. Ci “abitano” immigrati provenienti dal Nord Africa e dall’Africa subsahariana (spesso con regolare permesso di soggiorno e con alle spalle una traversata in mare dalla Libia), oltre a braccianti dell’Est Europa, come romeni, ungheresi e bulgari. E la mappa dello sfruttamento si estende ben oltre i luoghi a tutti noti. Si va da Castelvolturno, dove insiste una comunità africana di 18mila persone, a Rosarno in Calabria (qui vivono almeno 3mila persone nella stagione dei raccolti), passando per i ghetti della Capitanata dove si rifugiano circa 12mila immigrati, il Salento e la provincia di Bari, o le tendopoli in Basilicata nella zona di Acerenza, Palazzo San Gervasio, Venosa e Melfi, Ragusa in Sicilia. Tra le 2mila e le 4mila persone si riversano anche nei terreni della Piana del Sele, nel salernitano.

Ci sono poi i ghetti del Centro Italia come quelli nella zona di Latina, Fondi e Sabaudia, alle porte di Roma, fulcro della popolosa comunità indiana impiegata nei campi del pontino. E non è immune dal fenomeno dello sfruttamento in agricoltura nemmeno il Nord. In Emilia Romagna si registrano situazioni gravi nel cesenatico e nella zona di Rimini, Ferrara (a Codigoro) e Ravenna. In Toscana a essere critiche sono la zona dell’Amiata e la Val di Cornia. Mentre in Lombardia condizioni di grave sfruttamento si registrano nei campi del basso bresciano e nel mantovano. In Piemonte sono noti come luoghi di “smistamento” di manodopera a basso costo i territori di Saluzzo, le Langhe e Bra. In Veneto, fenomeni di caporalato si sono registrati nella provincia di Padova. In Trentino, nell’area di Bolzano/Laives.

Proprio per combattere il problema del caporalato, giovedì scorso i ministri dell’Agricoltura e del Lavoro, Maurizio Martina e Giuliano Poletti, hanno annunciato in tempi brevi una legge che preveda la confisca dei beni per tutte quelle aziende che sfruttino i braccianti o facciano uso di caporali. Un’iniziativa che va a sommarsi alle normative già esistenti per la lotta al caporalato.

«A dover cambiare – commenta in questo senso Oliviero Forti, direttore del settore Immigrazione della Caritas italiana – è la contrattazione nella filiera: si fanno le leggi per combattere il caporalato ma ancora non si vede da parte del Governo una riforma del sistema dell’agricoltura che apra, se necessario, un dialogo anche con le grandi multinazionali che nei fatti decidono i prezzi dei prodotti, la domanda e l’offerta. Se il prezzo corrisposto all’agricoltore è basso, difficilmente cambieranno le condizioni di lavoro e salario. La sfida da vincere per eliminare nei fatti il caporalato è tutta lì».

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