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Rischio politico in Thailandia

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Scenari

Rischio politico in Thailandia

Più pericolosa dell'Egitto, del Libano, della Colombia. Anche dopo il recente attentato al tempietto indù a Bangkok, sorprende trovare la Thailandia, il Paese in cui ogni cittadino maschio buddhista è anche monaco, al decimo posto nella classifica 2014 dell'Indice globale del terrorismo (Gti), a distanza relativamente breve, per esempio, dalla Somalia “senza stato”. Nel 2010 era addirittura quinta al mondo, ma nel 2003 era al 27° posto, poco prima dell'Italia, al 32°.

Il punto è che la Thailandia è sempre più instabile politicamente, e questo fatto complica maledettamente l'andamento dell'economia. La lunga serie di colpi di Stato, spesso senza spargimento di sangue, che ha segnato la storia del Paese - mai colonizzato - è sfociata all'inizio del secolo, con l'emergere di Thaksin Shinawatra - portatore delle istanze della “nuova Thailandia” in conflitto al vecchio mondo della corte reale, dei burocrati e dei militari - in una lunga serie di disordini, spezzata con la formazione della giunta militare nel 2014 e l'introduzione della legge marziale abrogata solo il 1° aprile 2015.

In una situazione di conflitto sociale, che per ora è latente ma che potrebbe riesplodere con le elezioni previste per l'anno prossimo dopo l'approvazione della nuova costituzione, l'economia cammina piuttosto lentamente: il Pil della Thailandia, a differenza di quanto è avvenuto ai suoi partner, è ancora al di sotto dei livelli precrisi. Pesa anche il fatto che, negli anni del boom che ha coinciso con l'ascesa di Shinawatra, il Paese ha investito molto e le famiglie si sono molto indebitate. L'arma della politica monetaria è quindi spuntata: ulteriori tagli dei tassi non avrebbero grande effetto.

La Thailandia non può quindi seguire ricette standard. Per sua fortuna il governo di Bangkok, a differenza di quasi tutti gli esecutivi dei Paesi emergenti, non ha paura del deprezzamento del cambio e del conseguente deflusso di capitali: la crisi asiatica del '97 ha insegnato alla banca centrale di Bangkok come creare i cuscinetti necessari per resistere agli shock inattesi. A luglio l'allora vice primo ministro Pridiyathorn Devakula - dimissionario dal 20 agosto - ha quindi spiegato che un baht più debole è più importante di un taglio dei tassi per rilanciare l'economia, e ha lasciato quindi che la flessione della valuta continuasse. Rispetto al dollaro, la moneta thailandese ha perso il 10% da aprile scorso, e il 20% da aprile 2013, accelerando quindi nelle ultime settimane il proprio deprezzamento; anche se nei confronti di tutte le principali valute, la situazione è però più complessa e il baht resta a livelli superiori a quelli del 2014. Sta dando una mano in ogni caso anche l'andamento dei prezzi, che sono in calo da gennaio.

Occorrono tre o quattro mesi, secondo Devakula - che è stato anche ministro delle Finanze e governatore della banca centrale, - perché si avverta l'effetto del deprezzamento sulle esportazioni. Segnali di vera ripresa per ora non se ne vedono. La Banca centrale ha pubblicato ieri il rapporto sull'andamento dell'economia a luglio: la bilancia commerciale e in surplus e migliora, ma solo perché le importazioni sono più deboli; e la bilancia dei pagamenti resta in deficit. Sta persino salendo la disoccupazione: dallo 0,54% di fine 2014, si è passati allo 0,9%. Sono numeri ridicolmente bassi, perché l'agricoltura, dove pure sono diffusi fenomeni di sottoccupazione, è sempre riuscita ad assorbire i senza lavoro generati da altri settori. Questo incremento, non certo preoccupante - anche se l'indicatore è rimasto al di sotto dell'un per cento dal 2011 in poi - potrebbe segnalare, se continuasse, qualche problema in più per l'economia.

La vera sfida del Paese è però evitare la “trappola dei Paesi a reddito medio”, nella quale si moltiplicano le pressioni delle élites più forti a evitare il rafforzamento delle classi sociali più dinamiche. Sul piano tecnico, il governo sta cercando di incentivare una trasformazione strutturale dell'economia sostenendo i settori a più alto valore aggiunto. Questo processo - già difficile perché centralizzato e affidato a burocrati statali - potrebbe scontrarsi con forti resistenze di carattere sociale.

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