Sulle sponde di un Lago di Como fermo nel tempo, nella terrazza incantata di Villa d'Este, in un'atmosfera sospesa tra sogno e realtà, la tentazione di credere alle favole è proprio grande. Ma non fino al punto di credere alla favola di una crescita senza credito bancario e senza investimenti pubblici o privati. E infatti non è questo lo stile della casa, o meglio della European House Ambrosetti dove il tema del rilancio della crescita si è imposto anche ieri.
A Cernobbio la consapevolezza generale è che è difficile se non impossibile irrobustire la ripresa economica - ancora molto fragile in Europa e soprattutto in Italia - senza alcun costo aggiuntivo per le casse dello Stato, con i rubinetti semi chiusi del credito bancario e con un settore privato che stenta ad aumentare gli investimenti in un quadro congiunturale troppo incerto e volatile. Vuoi per la Cina, per Grexit, per lo spettro della deflazione, per l'andamento dei tassi americani e del petrolio, per il rischio politico delle elezioni in Spagna, per i problemi dei BRICS, per l'emergenza immigrazione.
La crescita e il credito restano intrecciati in maniera indissolubile. Ma dove e come poter trovare, in Italia e nella zona dell'euro, i fondi necessari per rafforzare lo sviluppo economico? Come ha ricordato il ministro dell'Economia e dell'Industria francese Emmanuel Macron (si veda il Sole24ore del 4 settembre) il solo deficit da colmare per gli investimenti in Europa arriva fino a 1000 miliardi: ma molto resta da fare per consentire alle Pmi di crescere e internazionalizzarsi.
Nell'Eurozona, uno dei primi limiti (incrementato dal piano di rientro del Fiscal Compact) è quello del debito pubblico che è lievitato a dismisura per colpa della crisi delle banche e dell'euro e che deve assolutamente calare. Lo ha scandito Matteo Renzi ieri, per l'Italia soltanto, soffermandosi sul “macigno” del debito pubblico che è tornato a salire dal 2007 e sul quale il governo sarà “inflessibile” per garantirne il calo a partire dal 2016.
Nell'Eurozona, dal 2011 al primo trimestre del 2015 il debito pubblico è aumentato da 8.400 a 9.400 miliardi, dall'85% al 95% di debito/Pil. L'Irlanda, dopo il picco del 123% è scesa al livello ancora alto del 109%, la Francia dall'85% al 95%, la Spagna orbita attorno al 98% a colpi di deficit del 5,8-6,8% negli ultimi due anni. Per non parlare di Grecia.
Con gli Stati principali costretti a tirare la cinghia, e maturare nuove formule di tagli alla spesa pubblica corrente con contestuale aumento degli investimenti produttivi, l'Europa sta tentando di attivare un nuovo canale di finanziamento che non pesi sui conti pubblici nazionali (come il meccanismo di stabilità ESM) lanciando il Piano Juncker. Di questo piano si fa un gran parlare da tempo ma sebbene la Bei stia già lavorando su una pipeline di progetti e di controparti da finanziare, poco o nulla ancora si è mosso. L'EFSI (European Fund for Strategic Investments), il nuovo strumento che erogherà le garanzie per assumersi le prime perdite (first loss piece), non è ancora decollato: nei prossimi giorni è attesa la nomina del managing director e di altre posizioni al vertice ma stando a fonti bene informate il clima è già rovente tra i partners con Francia e Spagna che si sarebbero alleate per contrastare il tentantivo di Germania e Austria di assegnare il nuovo incarico a un Paese “core” (già la Bei e l'ESM sono guidate da due tedeschi, Hoyer e Regling). Resta il fatto che il Piano Juncker promette 315 miliardi di finanziamenti in più nel prossimo triennio quando forse ce ne vorrebbero 1000: una favola, quella del Piano Juncker, alla quale nessuno ieri al workshop Ambrosetti è sembrato credere.
I singoli stati intanto hanno margini ridotti per iniziative proprie. Questo spiega il tono delle domande rivolte ieri a Matteo Renzi da Federico Ghizzoni, ad di Unicredit (l'eccesso della regolamentazione sta mettendo le banche a tappeto) e Gabriele Galateri presidente di Generali (i requisiti patrimoniali per le compagnie di assicurazione mettono un grosso freno agli investimenti per la crescita). L'Italia continua ad incrementare il suo fondo nazionale di garanzia per le Pmi (oggi sono attese novità dal ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan a Cernobbio sulle garanzie) e ad estendere il campo di azione della Cdp, posta fuori dal perimetro della p.a. per iniziativa dell'allora ministro Giulio Tremonti (che ieri a Cernobbio rimpiangeva l'abbandono del progetto degli eurobond per la crescita, sostituito in corsa con i fondi salva-stati “contro la volontà dell'Italia”). Il Governo Renzi ha comunque messo il turbo a un progetto maturato anni fa, quello di una export bank italiana. Se ne parlava già nel 2010, quando Giovanni Castellaneta arrivò alla presidenza di SACE, dopo essere stato ambasciatore negli Usa (dove la SACE americana – US Exim Bank - fu trasformata in banca da Obama con lo scoppio della crisi di Lehman, nell'ambito di un piano di rilancio dell'export a stelle e strisce). «Stiamo lavorando con i nuovi vertici di Cassa depositi e prestiti per dare un concreto seguito a quanto sancito dal Governo, con l'obiettivo di mettere a disposizione delle imprese una “banca per l'export” di cui numerosi Paesi si sono già dotati da tempo- ha detto Castellaneta ai margini del TEHA -. Uno strumento che lavorerà in complementarietà e sinergia con il canale bancario, per incrementare la capacità di finanziamento a medio-lungo termine del sistema. A vantaggio della competitività internazionale delle nostre imprese, in particolare delle Pmi, e della crescita del Paese».
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