Sembrava l'Europa dei tempi migliori, con la voglia di fare e fare presto, quella come per incanto resuscitata ieri per qualche ora nell'emiciclo di Strasburgo. Nel suo discorso, il primo, sullo stato dell'Unione il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, non si è nascosto dietro la retorica del tutto va bene. Con linguaggio diretto, anche ruvido, ha dato invece una strigliata all'Europa riluttante. Senza risparmiare nessuno, men che meno i governi.
È finito il tempo del business as usual, non c'è abbastanza Europa nell'Unione né abbastanza unione dentro l'Unione, dobbiamo cambiare e farlo adesso, ha esordito. Poi sono arrivati i fendenti all'ignavia europea, alle false paure, alla solidarietà troppo aerea, al coraggio politico perduto. I problemi da risolvere sono tanti e difficili ma non si possono più rimandare.
«Siamo stati quasi tutti rifugiati, in fuga da persecuzioni politiche e religiose, da guerre, dittature e oppressioni. Noi europei dovremmo ricordarlo e mai dimenticare l'importanza di dare rifugio e rispettare il diritto fondamentale all'asilo». L'Europa non può rispondere con mezze misure alla maggior sfida strutturale che le sta di fronte.
Alla ripartizione immediata e obbligatoria di 160mila profughi, che i ministri degli Interni Ue sono chiamati ad approvare lunedì, il piano Juncker aggiunge per il futuro la proposta di quote obbligatorie di riallocazione permanente, accompagnate dalla crescente convergenza delle politiche nazionali di sostegno, integrazione e inclusione, con possibilità di lavorare per i rifugiati in attesa di asilo. Di più. Deciso rafforzamento di Frontex a protezione delle frontiere esterne, una politica estera più comune e assertiva, offensiva diplomatica per affrontare le crisi in Siria e Libia, un fondo da 1,8 miliardi per stabilizzare le aree più critiche in Africa.
L'europarlamento ha applaudito a scena aperta. Il dissenso c'è stato ma minoritario. Come tra i governi. Ormai sull'ultima ridotta resistono soltanto Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, che non fanno minoranza di blocco.
Con la Germania della Merkel che sponsorizza apertamente la svolta alla Juncker e gli altri grandi che l'appoggiano, Francia, Italia e Spagna, quasi certamente questa volta l'Europa tirerà diritto con la legge della maggioranza. I dissidenti saranno costretti a prenderne atto. È già accaduto del resto a inglesi e cechi quando posero il veto alla nomina di Juncker ma furono semplicemente marginalizzati.
Nell'Europa dei grandi numeri, sempre più intergovernativa e sempre meno comunitaria, la scorciatoia del decisionismo maggioritario e selettivo, a scapito della vecchia abitudine al consenso, cioè alla tutela del “sacro diritto alla sovranità nazionale”, promette di diventare il metodo di governance prevalente. Soprattutto quando l'urgenza di agire preme o efficienza e credibilità dell'Unione lo impongono.
Non a caso ieri, ripercorrendo la propria personale e durissima battaglia contro Grexit e i suoi paladini, Juncker ha ricordato ai greci che, qualora non rispettassero gli impegni presi, non avrebbero un'altra occasione: «La reazione dell'eurozona potrebbe essere diversa».
Il decisionismo anche a colpi di geometrie variabili è ormai in agguato un po' dovunque: nell'ennesimo rinegoziato con la Gran Bretagna (e probabili proseliti) come nella corsa alla rigenerazione del progetto europeo. Qui le ambizioni di Juncker sono alte: governo economico dell'eurozona, con una garanzia comune sui depositi bancari attraverso un sistema europeo di riassicurazione, Tesoro europeo, un vero mercato unico del lavoro con uno zoccolo di diritti sociali riconosciuti a livello continentale e proposte Ue imminenti.
Sembra paradossale che l'Europa possa rafforzarsi solo dividendosi. In passato però è già successo con l'euro e Schengen nell'epoca aurea dell'integrazione, ai tempi di Delors. La via delle fratture “virtuose” per uscire dalla ragnatela dei dissensi multipli potrebbe rivelarsi l'unica oggi praticabile per far ripartire l'Unione. Ammesso che si ritrovi davvero la volontà politica. E ammesso che, come ha avvertito Juncker, «esaurita la mobilitazione di opinione pubblica e governi scatenata dalla foto di un bambino annegato, non si ripiombi nella nostra solita mediocrità».
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