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La Yellen e il dilemma dello 0,25%

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fed e tassi usa

La Yellen e il dilemma dello 0,25%

Montagu Norman, leggendario Governatore della Banca d’Inghilterra, ricevette il 21 settembre 1931, mentre tornava dal Canada su un transatlantico, un criptico telegramma che diceva: «Old Lady goes off on Monday» (“La ’old lady’ se ne va lunedì”). Chi l’aveva mandato voleva dire, usando metafore (’Old Lady’ era il nomignolo della Banca centrale), che la Gran Bretagna stava per abbandonare il Gold Standard. Ma Norman, che forse fuori dal suolo natìo prendeva le cose alla lettera, capì che la sua vecchia genitrice partiva per un’inattesa vacanza.

Questi equivoci non sarebbero possibili oggi, nell’era delle comunicazioni istantanee. E nell’era in cui ogni parola, ogni articolo e ogni virgola delle esternazioni bancocentrali vengono analizzate e sezionate da stuoli di analisti. I quali, a pochi giorni dalla decisione della Fed (il 17 settembre) sui tassi di interesse, sono smarriti e divisi: i tassi verranno lasciati dove sono? Verranno innalzati (per la prima volta da 11 anni)? E cosa dirà la Banca centrale sul cammino futuro dei tassi-guida?

Montagu Norman (ancora lui) usava dire: «Prendevo le decisioni e poi chiamavo il capo dell’Ufficio Studi per farmele spiegare». Oggi le cose non sono più monocratiche come allora. Le decisioni delle Banche centrali sono collegiali e, anche se c’è un “primus inter pares”, i “pares” si fanno sentire. Non solo: i banchieri centrali sono bombardati di analisi e di consigli: dalla stampa, dai governi, dagli accademici, dagli esperti di ogni colore, e chi più ne ha più ne metta. La maggioranza di questi “bombardieri” pencola verso la prudenza: aspettate ad alzare i tassi, non abbiate fretta, ricordate il 1937 quando una politica restrittiva strozzò nella culla una ripresa incipiente in America. Sì – dicono – l’economia Usa va meglio, la disoccupazione è scesa di molto, i posti vacanti sono a livelli record... Ma l’inflazione è più bassa dell’obiettivo (il 2%) che si è dato la Fed. E, fuori d’America, le ripercussioni di un aumento dei tassi Usa possono essere serie. I capitali che sciacquano nel mondo saranno tentati di tornare in America, dove si avviano a essere meglio remunerati, il dollaro si rafforza, le altre monete si svalutano, l’incertezza aumenta...

Al fronte dei catastrofisti, che optano per lasciare i tassi a zero, se ne oppone un altro, per ora minoritario. I dissenzienti dicono che la politica monetaria agisce con un certo ritardo. La decisione presa oggi fa sentire i suoi effetti fra almeno sei mesi.

Talché bisogna pensare non all’inflazione di oggi, ancora sotto controllo, ma a quella di domani: con un mercato del lavoro sempre più teso, i salari saliranno e l’inflazione rischia di salire oltre il fatidico 2%. Una preoccupazione non molto convincente. Di un’inflazione in salita si parla da anni, da quando le operazioni di espansione quantitativa della moneta hanno inondato di liquidità il sistema economico. I soliti benpensanti gridarono al lupo dell’inflazione, seguendo un’ingenua versione della teoria quantitativa della moneta: dato che i prezzi sono “quantità di moneta diviso per quantità di beni”, e i beni sono quelli che sono, se aumenta la moneta aumentano i prezzi. Una teoria che vale, però, solo se la moneta viene spesa: se langue in conti e materassi perché famiglie e imprese hanno poca voglia di spendere, i prezzi non aumentano.

C’è un’opinione più rispettabile che pencola verso l’aumento, ed è quella della “Banca delle Banche”, la Banca dei regolamenti internazionali che ha sede a Basilea. La Bri non guarda al miserabile breve periodo, ma al medio o lungo. E arguisce che anni e anni di tassi schiacciati verso lo zero non fanno bene all’economia. Non dovendo prendere decisioni operative, lontano dall’ospedale da campo di questi tempi e di questi Paesi, la Bri si può permettere di ammonire: i tassi bassi non lasciano sceverare investimenti giusti e sbagliati, incoraggiano il rischio, distorcono l’allocazione dei capitali e possono portare a bolle inflazionistiche nel mercato delle attività finanziarie (azioni e obbligazioni) e reali (case e terreni). E tassi vicino a zero remunerano scarsamente i rispamiatori e mettono in difficoltà le assicurazioni sulla vita, che in passato hanno promesso rendimenti che ora non possono fornire. C’è poi una terza opinione, che dà un colpo al cerchio e uno alla botte: sì, alziamo i tassi ma diciamo che è una tantum. Non li ritoccheremo di nuovo.

Ma dopotutto, qual è la materia del contendere? Tutti sono d’accordo sul fatto che il “sì o no” riguarda un +0,25% del tasso-guida sui Federal Funds. Il problema non è quel quarto di punto, ma quel che verrà dopo. L’ultima volta che la Fed iniziò un ciclo di rialzo,i tassi andarono dall’1% del maggio 2005 al 5,25% del giugno 2007. La stessa Fed, però, ha dichiarato più volte che, quand’anche i tassi dovessero aumentare, non torneranno ai livelli che un tempo sarebbero stati considerati “normali”. La cosa importante da ricordare è che un aumento dei tassi non è necessariamente una cattiva notizia. Se la Fed li aumenta vuol dire che l’economia americana va bene. E, ammesso e non concesso che un aumento dei tassi Usa porti a cicloni finanziari nel pianeta, a fronte di queste perturbazioni c’è un’economia che si espande e offre sbocchi al resto del mondo.

Glenn Stevens, Governatore della «Reserve Bank of Australia», disse che, quando una Banca centrale deve decidere qualcosa deve chiedersi: «Quale mossa, fra quelle che potrei fare, è quella della quale potrei maggiormente pentirmi?». Una domanda, questa, che aleggerà intorno alla gigantesca tavola di mogano e granito nero che vedrà riuniti, mercoledì e giovedì, Janet Yellen e gli altri membri del «Federal Open Market Committee».

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