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Anfiteatro di Capua, vizi pubblici e virtù private

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nei luoghi di Spartacus

Anfiteatro di Capua, vizi pubblici e virtù private

Capua altera Roma (Capua seconda solo a Roma), diceva Cicerone. E il trionfale arco dell’imperatore Adriano, da duemila anni ostinatamente piantato all’ingresso di Santa Maria Capua Vetere, l’antica Capua, a meta strada tra Caserta e la terra dei fuochi. Adriano e Francesco Schiavone detto Sandokan, il boss dei casalesi, sono due polarità che disorienterebbero chiunque.

Ma è alla bellezza, come insegnava l’imperatore romano, che bisogna abbandonarsi, un esercizio nel quale i turisti tedeschi e francesi mostrano meno resistenze (e pregiudizi) degli italiani. Duecento metri al di là dell’arco adrianeo, appena sbucati dalla selva di insegne commerciali della via Appia, c’è l’anfiteatro campano, che forse sarebbe meglio chiamare anfiteatro romano (è secondo per estensione – un metro in meno – solo a quello della capitale), nato per volere dell’imperatore Adriano sulle ceneri dell’arena dove lo schiavo-gladiatore Spartacus compì le sue gesta. Un luogo perfettamente conservato, almeno in molte parti, con le pietre maestose e i labirinti sotterranei rimasti miracolosamente intatti. L’anfiteatro sarebbe stato la location naturale per girare la fiction americana «Spartacus, Blood e sand», andata in onda sul canale via cavo Starz (e in Italia su Sky) con ascolti record di 13milioni di spettatori, ma la produzione preferì ricostruire l’anfiteatro nientemeno che in Nuova Zelanda. Inutile stupirsi. Fino alla prima metà degli anni 2000, nell’anfiteatro si rifugiavano i tossici e delinquenti, un luogo dimenticato di una città retta a quei tempi dal padre-padrone don Nicola di Muro, latitante a Parigi per svariate pendenze giudiziarie. Nel 2002, Carlo Azeglio Ciampi, a quei tempi presidente della Repubblica, invitato a visitare l’antica Capua, rimase sconcertato dal degrado del Colosseo campano. Ci vollero cinque anni prima che si celebrasse una gara ad evidenza pubblica per assegnare i servizi di biglietteria, ristorazione e bookshop. Vinse il consorzio privato Artem, e nel 2013 la pratica ristorazione e bookshop venne affidata a Bruno Zarzaca, 47enne di Santa Maria Capua Vetere e socio di una catena di negozi e ristoranti bio a Napoli e Londra. È lui a trasformare un luogo degradato in un giardino con prato all’inglese e i tavoli del ristorante affacciati su queste arcate imponenti - erano 80 in origine - che la notte si popolano della meglio gioventù campana.

Un inizio. Perché dove finisce la gestione privata tutto è rimasto come ai tempi di Ciampi. Partiamo dal biglietto d’ingresso: 2.50, cinquemila lire quando esisteva il vecchio conio. Con la gestione privata, gli ingressi sono passati da 9 a 50mila. Un numero che lascia insoddisfatti sia Zarzaca sia la sovrintendente ai Beni archeologici della Campania, Adele Campanelli : «Un posto così ne meriterebbe almeno 400mila». Per i tre turni giornalieri sono in servizio 11 dipendenti dello Stato (35 in totale, ma fino a pochi anni fa erano oltre 50), o rintanati nel loro gabbiotto con aria condizionata e tv al plasma. Dalla loro hanno un contratto blindato e la clausola, come per i minatori, di lavoro usurante, un trattamento che vale un giorno di riposo ogni tre. Sulla pulizia meglio sorvolare. La Campanelli alza le braccia: «Gestisco 35 siti con risorse all’osso. Puliamo l’anfiteatro una volta l’anno, di più non posso». Il biglietto da 2.50 euro, una cifra ridicola, dà diritto a visitare anche gli affreschi dei dio persiano Mitra del I secolo dopo Cristo – un altro sito spettacolare sprofondato in una caverna - e il museo di Santa Maria Capua Vetere con la tomba numero zero del IV secolo avanti cristo. A malapena con gli incassi (il 30% va al concessionario) si riescono a pagare due stipendi dei 35 custodi, età media 55 anni, in carico al bilancio dello Stato. Il Comune, ora guidato da di Muro figlio, sostiene che il sito sia cosa della Sovrintendenza («noi ai custodi non possiamo chiedere neppure di spostare una sedia da qua a là» dice un funzionario). La sovrintendente, invece, batte sul tasto dei giovani archeologi («nei musei italiani è sparita la classe di età 27/41 anni»).

Solo su una cosa la Sovrintendente è irremovibile: «Ribattezzare l’anfiteatro Spartacus arena non sarebbe corretto. La struttura nasce un secolo dopo l’arena dello schiavo-gladiatore». Un rigore filologico che difficilmente consentirà a questo luogo di raggiungere il punto di pareggio tra costi e ricavi fissato in 16 mila visitatori per ogni custode. Che diventerebbero 8mila se il biglietto d’ingresso si elevasse a cinque euro e 4 mila a dieci, la quotazione minima per ammirare le meraviglie al di qua dell’arco di Adriano. La morale è semplice: il nome del museo e il costo del biglietto - elementi di marketing che valgono centinaia di migliaia di turisti - sono considerati due variabili marginali o nulle.

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