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Negli Usa con la «voce» dell’America latina

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i discorsi

Negli Usa con la «voce» dell’America latina

Parlerà in spagnolo anche all’Assemblea delle Nazioni Unite, Papa Francesco. E ben 18 dei 26 discorsi che pronuncerà nella sua visita negli Stati Uniti saranno pronunciati nella sua lingua. Il pontefice vuole essere sicuro di comunicare con precisione il suo pensiero. Vuole che arrivi in modo preciso. È ben consapevole dell’importanza di questo viaggio il Papa argentino che mai, neanche da vescovo, ha visitato di States.

Una realtà ricchissima e contraddittoria: il cuore della modernità e del potere finanziario globale, ma anche la culla delle libertà individuali e della democrazia.

Il Papa latino americano sa di poter comunicare anche con la sua lingua .

Perché un terzo dei circa 72 milioni di cattolici statunitensi è di origine ispanica, e entro pochi anni crescerà. Supererà il 50 per cento del totale dei cattolici. D’altra parte il 40 per cento dei cittadini statunitensi lo spagnolo è la prima lingua e tanti sono gli immigrati e i figli di immigrati, quei poveri ai quali in modo privilegiato Bergoglio intende rivolgersi.

Così non solo il futuro della Chiesa cattolica universale dipenderà sempre più dall’apporto delle comunità latino americane, ma sarà così anche per la potente e ricca Chiesa statunitense. Sugli oltre 450 vescovi quelli di origine “ispanica” sono solo una ventina, ma vi sono figure autorevoli come l’arcivescovo di Los Angeles il conservatore Josè Horacio Gomez o quello di Sacramento (San Francisco) monsignor Jaime Soto, considerato “progressista”.

La Chiesa, come il mondo, è destinata a cambiare e questo pontificato ne è una testimonianza. Per Bergoglio la fedeltà al Vangelo viene prima di tutto. Così non teme di lanciare sfide aprire nuovi scenari come in Bolivia lo scorso 18 maggio, con il discorso tenuto alla seconda assemblea mondiale dei movimenti popolari guidata dal presidente Morales. Ha usato parole forti. Ha rilanciato le sfide della sua enciclica per la salvaguardia del creato “Laudato si’”, come il diritto dei popoli a vedere rispettata la loro dignità, denunciando le ingiustizie. Ha dato voce alle rivendicazioni comuni a tanti popoli e governi del Centro e del Sud America.

Un segno del cammino seguito da tempo dalla Chiesa latino-americana e della sua autorità morale, ma anche indicativo di quanto sono maturate le società di questi Paesi. Anche nel rapporto con gli Stati Uniti. Da tempo neanche per Washington è pensabile proporre quella “dottrina Monroe” o “teoria del cortile di casa” che condizionava ogni scelta dei paesi del Centroamerica alla tutela degli interessi statunitensi.

In questo contesto quanto poteva continuare l’isolamento di Cuba? La sua marginalizzazione, figlia della “guerra fredda”, dopo 60 anni di blocco e dopo la caduta del Muro di Berlino aveva ancora senso? Dopo il ritiro del leader maximo Fidel Castro e l’affermarsi della linea più pragmatica del fratello Raul, la politica della distensione ha fatto i suoi passi. Dopo due anni di negoziati si è arrivati alla riapertura formale delle relazioni diplomatiche tra l’Avana e la Casa Bianca e il ruolo decisivo è stato di Papa Francesco e della Santa Sede che da 80 anni mantiene ininterrottamente mantiene relazioni diplomatiche con Cuba. Al Papa “ispanico” Obama e Raul Castro hanno riconosciuto il merito di aver consentito il buon esito della trattativa diplomatica. È un processo di distensione che è appena avviato. Vi è attesa per quanto dirà e in spagnolo all’Assemblea delle Nazioni Unite. Sicuramente obbligherà i suoi interlocutori a riflettere.

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