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Parigi soffocata dalla spesa pubblica

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Scenari

Parigi soffocata dalla spesa pubblica

Per i francesi il giorno della “liberazione fiscale”, quello cioè in cui hanno finito di lavorare per pagare le tasse e iniziato a guadagnare per sé, è stato quest’anno il 29 luglio. Uno in più rispetto all’anno scorso, tre in più rispetto al 2010. Lo ha calcolato, come ormai da tempo, l'Istituto economico Molinari, sulla base delle cifre rielaborate da Ernst&Young.

In Europa solo il Belgio, che ha però appena varato una riforma fiscale favorevole soprattutto alle imprese, è messo peggio (6 agosto). Per la Germania la “liberazione fiscale” è arrivata il 10 luglio, per l’Italia il 2 luglio, per la Gran Bretagna addirittura il 9 maggio.

Il prelievo complessivo sui redditi dei lavoratori dipendenti francesi è quindi del 57,5% (quello medio Ue è del 45,1%). E i 41 miliardi di alleggerimento fiscale sulle aziende (in quattro anni) deciso dal Governo per rimediare all’inasprimento imposto tra il 2011 e il 2014 e ridurre il costo del lavoro non cambieranno di molto le cose: il prelievo scenderà al 55,8%, collocando la Francia al terzo posto in Europa, dopo Belgio e Austria.

In sostanza su un costo del lavoro annuo medio di circa 55.800 euro (il quarto nella Ue), i dipendenti francesi ne intascano 23.700 (undicesimi in Europa). Con oneri sociali per 28mila euro su 32mila di prelievo complessivo, il cuneo fiscale più alto del continente. Per dare al proprio dipendente 100 euro di potere d’acquisto, il datore di lavoro ne deve spendere 235, rispetto a una media Ue di 187 (l’Italia è a 200, la Germania a 210, la Spagna a 176, la Gran Bretagna a 154).

Se si prende in considerazione un altro indicatore, quello cioè relativo alla pressione fiscale generale in rapporto al Pil, comprensiva di tutti i redditi, la situazione non è meno drammatica: è al 44,7%, un livello che colloca la Francia al secondo posto in Europa dopo la sola Danimarca (che potrebbe essere superata quest’anno). Il prelievo effettivo sul valore aggiunto delle imprese (quello nominale può arrivare al 38,3%), peraltro più forte sulle medie imprese perché le piccole hanno un trattamento agevolato e le grandi possono contare sui complessi meccanismi di ottimizzazione, è del 25,5% (23,7% in Italia, 13,9% in Germania), con un differenziale – stando ai calcoli del Medef, la Confindustria francese – di circa 134 miliardi rispetto alle imprese tedesche. E la tassazione sui capitali sembra fatta apposta per disincentivare gli investimenti a rischio: la Francia è al terzo posto in Europa, con un prelievo medio sui dividendi del 40,2% e sulle plusvalenze mobiliari del 58,2% (42% oltre i due anni e 64% entro i due anni di possesso). Il centro studi Rexecode ha calcolato che cumulando tutti i redditi e le relative tassazioni (patrimoniale compresa) si può arrivare all'assurdità di un prelievo abbondantemente superiore al 100 per cento.

Una simile pressione fiscale – che molti definiscono “confiscatoria” e che da anni Banca di Francia, Ocse e Bruxelles nelle sue ripetute raccomandazioni chiedono di diminuire perché ritenuta il principale freno, insieme alle rigidità del mercato del lavoro, alla competitività e all’attrattività della Francia – serve a sostenere i costi dell’enorme spesa pubblica del Paese.

Cresciuta negli ultimi 15 anni di una cifra pari al 6,2% del Pil (nello stesso periodo quella media europea, complice la crisi, è salita del 4,9%, mentre quella tedesca è scesa dello 0,3%), ha raggiunto quota 57,2% del Pil. Un livello che colloca la Francia al secondo posto in Europa, dietro alla sola Finlandia. Metà di questa spesa (il 26% del Pil) serve a finanziare un sistema di welfare particolarmente generoso e strutturalmente in profondo rosso (a partire dalla mostruosa macchina di sostegno alla disoccupazione, che ha ormai accumulato un deficit di 26 miliardi). E un quarto (il 23% del totale, pari al 13% del Pil) per pagare gli stipendi dell’esercito di dipendenti pubblici (protetti da uno statuto anacronistico che garantisce condizioni privilegiate rispetto al privato e la non licenziabilità): 5,5 milioni di persone, il 22,5% della forza lavoro complessiva (rispetto al 17% della media Ue, al 15% dell'Italia, all’11% della Germania), la percentuale più alta in Europa dopo i Paesi del Nord.

Sul banco degli imputati c’è soprattutto quello che viene abitualmente chiamato “il millefoglie territoriale” e sul quale la Corte dei conti continua a sparare ad alzo zero: 22 Regioni (ora portate a 13), 96 Province, 15.400 organismi intercomunali, 12 città metropolitane e 36.500 Comuni (il 41% di tutta Europa!). Una miriade di enti locali, dalle competenze spesso sovrapposte, che assorbono il 20% della spesa pubblica complessiva e che spendono il 24% delle entrate (trasferimenti compresi) solo per gli stipendi (35 miliardi in più negli ultimi sei anni, con un numero di dipendenti salito di 100mila unità a 1,9 milioni). Secondo i calcoli della Banca di Francia, tra il 2000 e il 2014 al netto delle necessità e degli oneri legati alla decentralizzazione, gli enti locali hanno registrato un incremento “non giustificato” di 416mila addetti (+30%, rispetto al +12% dell’intera amministrazione pubblica) e del 39% delle spese di funzionamento.

È evidente che questo circolo perverso ha conseguenze disastrose sull’efficienza dell’intera economia e disincentiva l’imprenditorialità. Basti ricordare che i margini delle società sono scesi a livelli storicamente bassi (meno del 29%, rispetto al 40% delle concorrenti tedesche) e che solo adesso, grazie ai crediti d’imposta varati d’urgenza per cercare di evitare la castrofe, stanno lentamente risalendo sopra il 30 per cento. Comunque troppo poco per investire, assumere e remunerare il capitale.

Purtroppo non si può neppure dire che questa fiscalità punitiva (che comprende, unico caso in Europa, anche un'imposta patrimoniale e spinge gli alti redditi a emigrare) sia servita a mettere ordine nei conti pubblici. Visto che, nonostante entrate pari al 53,1% del Pil (48% in Italia, 44,3% in Germania), la Francia sta faticosamente cercando di portare il proprio deficit nominale al 3,8% (quello strutturale è dell’1,3%, il più alto dell’Ocse) e di evitare che il debito sfondi la soglia del 100% del Pil. L'amara constatazione è quindi che nessun altro Paese europeo (forse al mondo) ha nel contempo un fisco così vorace e conti pubblici così squilibrati.

Il futuro prossimo non giustifica inoltre alcun ottimismo. Della “grande riforma fiscale” promessa da François Hollande all'inizio della sua presidenza non si vede l’ombra e le misure di riduzione della spesa pubblica (50 miliardi in tre anni) sono in realtà finalizzate a limitarne l’aumento. La crescita prevista (peraltro superiore all’1% medio annuo) è certo inferiore a quella media del periodo 2007-2012 (3,3%) e a quella tendenziale (2,5%), grazie a tagli che stanno peraltro provocando la rivolta dei sindaci, ma di crescita pur sempre si tratta (quando invece l’Ocse scrive che la spesa si può ridurre in volume dell’1% annuo aumentandone l'efficienza e senza conseguenze sul livello dei servizi). E la prevista abolizione delle Province è stata rimandata al dopo 2017, cioè quando ci saranno con tutta probabilità un altro presidente e un altro Governo. Mentre la pressione fiscale, pur nelle eccessivamente positive previsioni del ministero delle Finanze, rimarrà superiore al 44% del Pil. E la spesa al 55 per cento.

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