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Se l'Europa conta i danni della caduta tedesca

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MERCATO E REGOLE

Se l'Europa conta i danni della caduta tedesca

Di pessimi allievi l'Europa ridonda da sempre come di molteplici e martellanti richiami a ordine e disciplina violati. Che però il maestro diventasse improvvisamente cattivo e finisse in quel mucchio, davvero nessuno se lo aspettava.

Forse sarà per questo che, contrariamente al solito, mercoledì al vertice Ue di Bruxelles Angela Merkel è arrivata con la faccia scura, tesa. Ormai più dei rifugiati a preoccuparla è il caso Volkswagen: la caduta di un mito, il suo paese, lo sfregio inferto ad autorità morale e leadership indiscussa della Germania e del suo modello in Europa, la falsa superiorità nella tecnologia pulita, il massacro dell'etica degli affari, con tutti gli annessi e pesanti danni collaterali.

Che fine farà a questo punto, per esempio, il Ttip, l'accordo per il partenariato transatlantico su commercio e investimenti, che già boccheggiava tra mille difficoltà ma resta essenziale per spingere la lenta crescita europea? E quale credibilità potrà rivendicare la conferenza di Parigi sul clima, che in dicembre vorrebbe consacrare l'Europa come la lungimirante antesignana della battaglia contro l'effetto serra in un contesto di ritrovata fiducia globale dopo il rovinoso disastro della riunione di Copenaghen nel 2009? E chi potrà più fidarsi del made in Germany, dei prodotti che finora non si vendevano ma si compravano?

La mazzata peggiore e più immediata rischia comunque, di scaricarsi sull'Unione europea proprio quando sembrava lentamente avviata a riprendersi dalla batosta della crisi greca. Una frenata della locomotiva tedesca per contrazione dell'export di auto (e dintorni), settore che da solo rappresenta un quinto del totale, rallenterebbe l'intera economia europea.

Ma c'è di peggio. Lo scandalo Vw è la storia del maggior gruppo industriale tedesco che, dopo aver ampiamente contribuito a scriverle, ha barato sulle regole Ue e non, truccando le carte della propria competitività: negli Stati Uniti, in Europa ma probabilmente dovunque.

La confessione della Vw di ieri non impedirà l'aggravarsi, come se ce ne fosse bisogno, della crisi di fiducia intra-europea né i dubbi sulla credibilità di norme e standard, ambientali e non, sui quali si è costruito il mercato unico, tra l'altro con la pretesa di farne un esempio per il mondo intero. Ora è certo che quelle regole sono servite al paese membro più potente, al sistema industriale europeo più forte, non a fare più innovazione tecnologica ma a distorcere in modo occulto la concorrenza tra imprese dentro l'Unione e fuori. Truffando, con pubblicità ingannevole, sulla reale qualità ambientale delle auto tedesche e sulla tutela della salute che avrebbero dovuto garantire ai loro consumatori

Non è un'esagerazione. Perché da sempre il mercato unico e i suoi standard industriali, per un presupposto di eccellenza che ora si rivela invece una “patacca”, sono costruiti a immagine e somiglianza di quelli tedeschi. In tutti i settori e con un occhio di riguardo all'auto, specie quella “pulita”. Anche perché, confessano vari negoziatori, «o si fa come dice Berlino oppure i dossier finiscono bloccati o morti». E' stato così con i limiti anti-emissioni inquinanti: in nome dell'impegno ambientalista di cui si volevano i campioni mondiali, prima i produttori di grandi cilindrate, Vw, Bmw, Mercedes hanno imposto a quelli di medie e piccole, francesi e italiani, e malgrado le loro proteste limiti molto onerosi da rispettare. Poi due ani fa marcia indietro: norme più flessibili nonostante l'altro blocco fosse questa volta pronto a rispettarne di più ambiziose.

Gli esempi si sprecano: sui gas refrigeranti per i condizionatori Berlino non rispetta la direttiva Ue perché non coincide con i suoi interessi e ignora la procedura Ue di infrazione. Sugli apparecchi medicali prima ha bloccato per anni, perché la normativa Ue non ne consentiva il riciclo per ragioni di tutela di sicurezza e salute: ora si è fatta mettere in minoranza pur di non sottoscrivere un accordo sgradito.

Con l'ultima tappa della liberalizzazione ferroviaria sta tentando il colpo grosso: la standardizzazione delle norme, che la favorisce consentendole di viaggiare liberamente sui binari altrui, avrebbe dovuto essere riequilibrata da una governance europea, cioè dalla fine della holding alla tedesca che non scorpora la rete dai servizi, in modo che la prima continua a finanziare i secondi, anche se in perdita. A queste condizioni l'apertura del mercato permetterebbe al più forte di cannibalizzare le quote dei più deboli. Nessuno cede, il negoziato non avanza.

C'è poi la direttiva su sorveglianza dei mercati e sicurezza dei prodotti, ferma da anni per il rifiuto di Germania e paesi nordici di accettare tracciabilità e controlli del “made in”, in breve di offrire ai consumatori europei le stesse garanzie assicurate a quelli americani. Ci fosse stata questa norma, forse la Vw avrebbe potuto essere fermata prima.

Fino a che la soffocante preponderanza degli interessi tedeschi sul mercato europeo appariva scomoda ma comunque il portato di dinamismo e serietà industriale, ricerca tecnologica e inappuntabile etica degli affari, anche se con fastidio l'Europa poteva digerire la supremazia del migliore. Oggi e domani sarà molto ma molto difficile.

La Germania è caduta dall'Olimpio per finire tra i fallibili mortali che la circondano. A capitombolare per prime erano state le sue banche, con le loro manipolazioni su tassi, sovvenzioni e opacità troppo diffuse. Ma l'industria tedesca no, quella sembrava davvero una success-story solida e invidiabile. Non avesse impartito agli altri costanti lezioni sulle sue virtù da imitare mentre gabbava le leggi della competitività e della concorrenza, forse oggi per gli europei sarebbe più facile archiviare questa brutta pagina. Che invece ora rischia di smontare a poco a poco anche la conquista del mercato unico. La fiducia è persa.

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