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Dal Dieselgate una lezione di Csr

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Dal Dieselgate una lezione di Csr

«Ci vogliono venti anni per costruirsi una reputazione e cinque minuti per rovinarla». La frase di Warren Buffet è stata fin troppo citata negli ultimi giorni ma, per quanto abusata, rende bene l’idea di quanto importante sia oggi il rischio reputazionale e di come il terreno di gioco possa rivelarsi insidioso.

Di fronte al disastro del Dieselgate provocato dalla casa automobilistica Volkswagen è stato osservato che, molto più del passato, e per la prima volta in maniera concretamente globale, il mercato ha punito senza esitazioni e senza attenuanti la violazione, consapevole e reiterata, di un principio dell’etica d’impresa. Lo scandalo delle emissioni truccate è diventato, così, un esempio da manuale di ciò che un’azienda non può permettersi di fare quando compete in uno scenario che quota come valori rilevanti il consenso dei regolatori e la fiducia dei consumatori.

Ciò assodato, tuttavia, esiste anche una chiave di lettura più specifica, che riguarda quanti si occupano di Csr e di etica d’impresa. Si sostiene ormai da tempo che la responsabilità sociale è una chiave strategica per lo sviluppo di un’impresa, che deve fare parte integrante del business, che se non viene metabolizzata nella pianificazione e nell’innovazione di processi e prodotti non garantisce la sostenibilità a medio-lungo termine. Serviva una prova sul campo? Anche no, ma ci ha pensato Volkswagen a fornirla, si potrebbe dire, in formula full optional, cioè corredata da tutti, ma proprio tutti gli ingredienti accessori che in una pratica già di per sé gravemente scorretta dovrebbero essere messi al bando.

Ecco, dunque, la riflessione che ne trae Fulvio Rossi, presidente di Csr Manager Network, associazione dei dirigenti responsabili delle politiche di sostenibilità: «Il caso Volkswagen – sostiene - segnala con evidenza la rilevanza strategica della sostenibilità. Abbiamo già assistito in passato a cadute in Borsa e pesanti conseguenze sui ricavi legate alla scoperta di difetti tecnici, ma è la prima volta che questo accade per una caratteristica, come le emissioni inquinanti, che non tocca con immediatezza la sicurezza o il portafoglio dei clienti, ma la loro volontà di partecipare, in quanto consumatori consapevoli, alla sostenibilità dello stile di vita».

Ma c’è di più. «Il settore automotive – aggiunge Rossi - non è certo l’unico in cui fattori di sostenibilità orientano pesantemente le scelte dei consumatori. Tra gli altri, basta pensare all’alimentare e al largo consumo in generale. Anche nel consumo di energia elettrica abbiamo assistito a una rapida crescita di sensibilità per la produzione da fonti rinnovabili. Ma in linea di principio nessun settore è escluso, visto che le scelte dei consumatori e degli investitori partono da una maggiore attenzione alla capacità delle imprese di stare al passo con sfide globali, come il cambiamento climatico, la scarsità di acqua, il rispetto dei diritti umani, che valgono per qualsiasi attività economica. In alcuni casi c’è un nesso diretto con il benessere del consumatore, come la salute, ma il trend è più generale». «Per questi motivi – conclude Fulvio Rossi - credo che assisteremo a un’ulteriore crescita della considerazione della sostenibilità nella cultura manageriale e a un’affermazione della Csr intesa come contributo alla creazione di valore nel tempo».

C’è, poi, un tema di prospettiva che non può essere ignorato, come rileva Jacopo Schettini Gherardini, direttore della ricerca di Standard Ethics, network internazionale di valutazione del rating etico. «Quello che è finito in questi giorni sotto i riflettori, per effetto dello scandalo Volkswagen – afferma - è solo un rischio reputazionale “secondario”, legato alla produzione. Il rischio “primario”, invece, è quello che dovrebbe indurre le imprese a osservare anche la percezione che il pubblico, come risparmiatore o consumatore, ha di un’attività economica. Non si tratta di indirizzare le idee del cliente, ma piuttosto di calcolare e pesare bene le manifestazioni di fiducia che dall’esterno investono l’azienda quale oggetto di reputazione».

Che cosa significa tutto ciò? «Sono già numerose – osserva Gherardini - le crisi di grandi imprese che hanno ignorato temi come la parità di genere o la tutela degli animali. E si vedono all’orizzonte altre bufere, ad esempio intorno ai temi della fiscalità, contro l’uso opportunistico delle sedi sociali per pagare meno tasse, o legati alla privacy. In sintesi, l’analisi dei rischi reputazionali, in un mondo interconnesso, è molto più estesa e complessa del mero gradimento di un prodotto o dell’attività di marketing».

Quale lezione trarre, dunque, dal Dieselgate? La conclusione, secondo Gherardini, è che siamo prossimi a un radicale cambiamento rispetto all’era finanziaria classica, focalizzata sulle variabili economiche e sulla qualità delle produzioni. «I mercati regolamentati e i consumatori, per quanto fallibili, si stanno dimostrando il sistema più importante ed indipendente per valutare la sostenibilità di lungo periodo delle attività produttive», afferma il ricercatore. Come dire che il boccino è già passato in mano a ciascuno di noi, e le imprese faranno bene ad affrancarsi da una concezione della Csr delegata a pochi addetti ai lavori, per farne un valore realmente condiviso.

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